Luigi Pirandello

"Un cavallo nella luna: Novelle"

UN CAVALLO NELLA LUNA.

Di settembre, su quell'altipiano d'aride argille strapiombante franoso sul mare africano, la campagna, già riarsa dalle rabbie dei lunghi soli estivi, era triste, tutta irta di stoppie annerite. E tuttavia fu stabilito che i due sposi vi passassero almeno i primi giorni della luna di miele.

Era necessario, in considerazione dello stato di lui, dello sposo.

Il pranzo di nozze, preparato in una sala dell'antica villa solitaria in mezzo a quelle terre assolate, con radi mandorli e qualche ceppo centenario d'olivo saraceno, non fu davvero una festa per i convitati. Nessuno di essi riuscì a vincere l'impaccio, ch'era piuttosto sbigottimento, per l'aspetto e il contegno di quel giovanotto grasso, appena ventenne, biondo, sanguigno, dal volto di pesca vellutata, che guardava qua e coi piccoli occhi neri, lustri, da pazzo, e non intendeva più nulla, e non mangiava e non beveva e diventava di punto in punto più rosso, paonazzo, violaceo, e con gli occhi sempre più piccoli e più lustri.

Si sapeva che, preso d'un amor forsennato, aveva fatto pazzie, fino al punto di tentare di uccidersi - lui, ricchissimo, unico erede dell'antico casato dei Berardi - per colei che ora gli sedeva accanto, sposa. Era la figlia unica del colonnello del reggimento venuto da un anno in Sicilia. Il signor colonnello, mal prevenuto contro gli abitanti dell'isola, non avrebbe voluto accondiscendere a quelle nozze, per non lasciare , come tra selvaggi, la figliuola.


Lo sbigottimento per l'aspetto e il contegno dello sposo cresceva nei convitati, quanto più essi avvertivano il contrasto con l'aria della giovanissima sposa. Era una vera bambinaancora, vispa, fresca, aliena; e pareva si scrollasse sempre d'addosso ogni pensiero fastidioso con certi scatti d'una vivacità piena di grazia, ingenua e furba nello stesso tempo. Furba però, come d'una birichina ancora ignara di tutto. Orfana, cresciuta fin dall'infanzia senza mamma, appariva infatti chiaramente

che andava a nozze affatto impreparata. Tutti, a un certo punto, finito il pranzo, risero e si sentirono gelare a un'esclamazione di lei, rivolta allo sposo:

- Oh Dio, Nino, ma perchè fai codesti occhi piccoli piccoli? Lasciami.... no, scotti! Perchè ti scottano così le mani? Senti, senti, papà, come gli scottano le mani.... Che abbia la febbre?

Tra le spine, il colonnello affrettò la partenza dei convitati dalla campagna. Ma ! per togliere quello spettacolo che gli pareva quasi indecente. Presero tutti posto in sei vetture. Quella dove il colonnello sedette accanto alla madre dello sposo, anch'essa vedova, andando a passo per il viale, rimase un po' indietro, perchè i due sposi, lei di qua, lui di , con una mano nella mano del padre e della madre, vollero seguirla per un tratto a piedi, fino all'imboccatura dello stradone che conduceva alla città lontana. Qua il colonnello si chinò a baciar sul capo la figliuola; tossì, borbottò:

- Addio, Nino.

- Addio, Ida, - rise di la madre dello sposo; e la carrozza s'avviò di buon trotto per raggiungere le altre coi convitati.

I due sposi rimasero per un pezzo a seguirla con gli occhi. La seguì la sola Ida veramente, perchè Nino non vide nulla, non sentì nulla, con gli occhi fissi alla sposa rimasta , sola con lui finalmente, tutta, tutta sua.... Ma che? Piangeva?

- Il babbo.... - disse Ida, agitando con la mano il fazzoletto in saluto. - , vedi?... anche lui....

- Ma tu no, Ida.... Ida mia.... - balbettò, singhiozzò quasi, Nino, facendo per abbracciarla, tutto tremante.

Ida lo scostò.

- No, lasciami.... ti prego....

- Voglio asciugarti gli occhi io....

- Grazie, no, caro: me li asciugo da me....

Nino rimase , goffo, a guardarla, con un viso pietoso, la bocca semiaperta. Ida finì d'asciugarsi gli occhi; poi:

- Ma che hai? - gli domandò. - Tu tremi tutto.... Dio, no, Nino: non mi star davanti così.... mi fai ridere.... Non la finisco più, bada, se mi metto a ridere!... Aspetta, ti sveglio....


Gli posò lievemente le mani su le tempie e gli soffiò sugli occhi. Al

tocco di quelle dita, all'alito di quelle labbra, egli si sentì vacillare, fu per cadere in ginocchio; ma ella lo sostenne, scoppiando in una risata fragorosa:

- Su lo stradone? Seimatto? Andiamo, andiamo.... Là, guarda.... a quella collinetta là.... Si vedranno ancora le carrozze! Andiamo a vedere!

E lo trascinò via per un braccio, impetuosamente.

Da tutta la campagna intorno, ove tante erbe e tante cose sparse da tempo erano seccate, vaporava nella calura quasi un alido antico, denso, che si mescolava coi tepori grassi del fimo che fermentava in piccoli mucchi sui maggesi, e con le fragranze acute dei mentastri ancor vivi e delle salvie. Quell'alito denso, quei grassi tepori, queste fragranze pungenti, li avvertiva lui solo. Ella, dietro le spesse siepi di fichidindia, tra gli irti ciuffi giallicci delle stoppie bruciate, sentiva, invece, correndo, come strillavano gaje al sole le calandre, e come, nell'afa dei piani, nel silenzio attonito, sonava da lontane aje, auguroso, il canto di qualche gallo; si sentiva investire, ogni tanto, dal fresco respiro refrigerante, che veniva dal mare prossimo a commuover le foglie stanche, già diradate e ingiallite, dei mandorli, e quelle fitte, aguzze e cinerulee degli olivi.

Raggiunsero presto la collinetta; ma egli non si reggeva più, quasi cascava a pezzi, dalla corsa; volle sedere; tentò di far sedere anche lei, lì accanto, tirandola per la vita. Ma Ida si schermì:

- Lasciami guardare, prima....

Cominciava a essere inquieta, entro di sè. Non voleva mostrarlo. Irritata da certe curiose, strane ostinazioni di lui, non sapeva, non voleva star ferma; voleva fuggire ancora, allontanarsi ancora; scuoterlo, distrarlo e distrarsi anche lei, finchè durava il giorno.

Di là dalla collina si stendeva una pianura sterminata, un mare di stoppie, nel quale serpeggiavano qua e là le nere vestigia della debbiatura, e qua e là anche rompeva l'irto giallore qualche cespo di cappero o di liquirizia. Laggiù laggiù, quasi all'altra riva lontana di quel vasto mare giallo, si scorgevano i tetti d'un casale tra alte pioppe nere.

Ebbene, Ida propose al marito d'arrivare fin là, fino a quel casale. Quanto ci avrebbero messo? Un'ora, poco più.... Erano appena le cinque. Là, nella villa, i servi dovevano ancora sparecchiare. Prima di sera sarebbero stati di ritorno.


Cercò d'opporsi Nino, ma ella lo tirò su per le mani, lo fece sorgere in piedi, e poi via di corsa per il breve pendio di quella collinetta e quindi

per quel mare di stoppie, agile e svelta come una cerbiatta. Egli, non facendo a tempo a seguirla, sempre più rosso e come intronato, sudato, ansava, correndo, la chiamava, voleva una mano....

- Almeno la mano! almeno la mano! - andava gridando.

A un tratto ella s'arrestò, dando un grido. Le si era levato davanti uno stormo di corvi, gracchiando. Più là, steso per terra, era un cavallo morto. Morto? No, no,non era morto: aveva gli occhi aperti.... Dio, che occhi! che occhi! Uno scheletro era.... E quelle costole.... quei fianchi....

Nino sopravvenne, stronfiando, arrangolato:

- Andiamo.... subito, via!... Che ci guardi? Ritorniamo, ritorniamo indietro!

- È vivo, guarda! - gridò Ida, profondamente impietosita. - Leva la testa.... Dio, che occhi!... guarda, Nino....

- Ma sì, - fece lui, ancora ansimante. - Son venuti a buttarlo qua.... Lascia; andiamocene.... Che gusto? Non senti che già l'aria qua....

- E quei corvi? - esclamò ella, con un brivido d'orrore. - Quei corvi là se lo mangiano vivo?

- Ma, Ida, per carità.... - pregò lui a mani giunte.

- Nino, basta! - gli gridò allora lei, al colmo della stizza nel vederlo così supplice e melenso. - Rispondi: se lo mangiano vivo?

- Che vuoi che sappia io, come se lo mangiano? Aspetteranno....

- Che muoja qui, di fame, di sete? - riprese ella, col volto tutto strizzato dalla compassione e dal ribrezzo. - Perchè è vecchio? perchè non serve più? Ah, povera bestia! che orrore! che infamia! Ma che cuore hanno codesti villani? che cuore avete voi qua?

- Scusami, - diss'egli, alterandosi, - tu senti tanta pietà per una bestia....

- Non dovrei sentirne?

- Ma non ne senti per me!

- E che sei bestia tu? che stai morendo forse di fame e di sete, tu, buttato in mezzo alle stoppie? Senti.... oh guarda i corvi, Nino, su.... guarda.... fanno la ruota.... Oh che cosa orribile, infame, mostruosa.... Guarda.... oh, povera bestia.... prova a rizzarsi! Nino, si muove.... forse può ancora camminare.... Nino, su, ajutiamola.... smuoviti!


- Ma che vuoi che gli faccia io? - proruppe egli, esasperato. - Me lo

posso trascinare appresso? caricarmelo su le spalle? Ci mancava il cavallo, ci mancava.... Come vuoi che cammini? Non vedi che è mezzo morto?

- E se gli facessimo portare da mangiare?

- E da bere, anche!

- Oh, come sei cattivo, Nino! - disse Ida con le lagrime agli occhi.

E si chinò, vincendo il ribrezzo, a carezzare con la mano, appena appena, la testa del cavallo che s'era tirato su a stento da terra, ginocchioni su le due zampe davanti, mostrando pur nell'avvilimento di quella sua miseria infinita un ultimo resto, nel collo e nell'aria del capo, della sua nobile bellezza.

Nino, fosse per il sangue rimescolato, fosse per il dispetto acerrimo, o fosse per la corsa e per il sudore, si sentì all'improvviso abbrezzare e si mise a battere i denti, con un tremore strano di tutto il corpo; si tirò su istintivamente il bavero dellagiacca e, con le mani in tasca, cupo, raffagottato, disperato, andò a sedere discosto, su una pietra.

Il sole era già tramontato. Si udivano da lontano i sonaglioli di qualche carro che passava laggiù per lo stradone.

Perchè batteva i denti così? Eppure la fronte gli scottava e il sangue gli frizzava per le vene e le orecchie gli rombavano. Gli pareva che sonassero tante campane lontane.... Tutta quell'ansia, quello spasimo d'attesa, la freddezza capricciosa di lei, quell'ultima corsa, e quel cavallo ora, quel maledetto cavallo.... oh Dio, era un sogno? un incubo nel sogno? era la febbre?... Forse un malanno peggiore.... Sì! Che bujo, Dio.... che bujo!... O gli s'era anche intorbidata la vista? E non poteva parlare, non poteva gridare.... La chiamava: "Ida! Ida!", ma la voce non gli usciva più dalla gola arsa.

Dov'era Ida? Che faceva?

Era scappata Ida al lontano casale a chiedere ajuto per quel cavallo, senza pensare che proprio i contadini di là avevano trascinato qua la bestia moribonda.


Egli rimase lì, solo, a sedere su la pietra, tutto in preda a quel tremore crescente; e, curvo, tenendosi tutto ristretto in sè, come un grosso gufo appollajato, intravide a un tratto una cosa che gli parve.... ma sì, giusta, ora, per quanto atroce.... per quanto come una visione d'altro mondo.... ma che pure non poteva essere che così, e che così forse si sarebbe sempre fissata per lui, davanti ai suoi occhi: la luna, ma come un'altra

luna d'un altro mondo, una gran luna che sorgeva lenta da quel mare giallo di stoppie; e, nera, in quell'enorme disco di rame vaporoso, la testa inteschiata di quel cavallo che attendeva ancora col collo proteso; che avrebbe atteso sempre, forse, così nero stagliato su quel disco di rame, mentre i corvi, facendo la ruota, gracchiavano alti nel cielo.

Quando Ida, disillusa, sdegnata, sperduta per la pianura, gridando: "Nino! Nino!" ritornò, la luna s'era già alzata; il cavallo s'era riabbattuto, come morto; e Nino.... - dov'era Nino? Oh, eccolo là, per terra anche lui.... Si era addormentato là? - Corse a lui, e lo trovò che rantolava, con la faccia anche lui a terra, quasi nera, gli occhi gonfi, serrati, congestionato.

- Oh Dio!

E si guardò attorno, quasi svanita; aprì le mani, ove teneva alcune fave secche portate da quel casale per darle a mangiare al cavallo.... guardò la luna, poi il cavallo, poi qua per terra quest'uomo come morto anche lui.... si sentì mancare, assalita improvvisamente dal dubbio che tutto quello che vedeva non fosse vero, e fuggì atterrita verso la villa, chiamando a gran voce il padre, il padre che se laportasse via, oh Dio! via da quell'uomo che rantolava.... chi sa perchè! via da quel cavallo, via da sotto quella luna pazza, via da sotto quei corvi che gracchiavano nel cielo.... via, via, via....

IL CAPRETTO NERO.

Senza dubbio il signor Charles Trockley ha ragione. Sono anzi disposto ad ammettere che il signor Charles Trockley non può aver torto mai, perchè veramente la ragione e il signor Trockley sono una cosa sola. Ogni mossa, ogni sguardo, ogni parola del signor Charles Trockley sono così rigidi e precisi, così ponderati e sicuri, che chiunque, senz'altro, deve riconoscere che non è possibile il signor Charles Trockley, in qual si voglia caso, stia dalla parte del torto. Non è possibile, prima di tutto, per la posizione ch'egli prende subito, e da cui sarebbe vano tentare di rimuoverlo, di fronte a ogni questione che gli sia proposta, o avventura che gli occorra.


Io e lui, per recare un esempio, siamo nati lo stesso anno, lo stesso mese e quasi lo stesso giorno; lui, in Inghilterra; io, in Sicilia. Oggi, quindici di giugno, egli compie quarantotto anni; quarantotto ne compirò

io il giorno ventotto. Bene: quant'anni avremo, lui il quindici, e io il ventotto giugno dell'anno venturo? Il signor Trockley non si perde; non èsita un minuto; con sicura fermezza sostiene che il quindici e il ventotto giugno dell'anno venturo lui e io avremo un anno di più, vale a dire quarantanove.

È possibile dar torto al signor Charles Trockley?

Il tempo non passa ugualmente per tutti. Io potrei avere da un sol giorno, da un'ora sola più danno, che non lui da dieci anni passati nella rigorosa disciplina del suo benessere; potrei vivere, per il deplorevole disordine del mio spirito, durante quest'anno, più d'una intera vita. Il mio corpo, più debole e assai men curato del suo, si è poi, in questi quarantotto anni, logorato quanto certamente non si logorerà in settanta quello del signor Trockley. Tanto vero ch'egli, pur coi capelli tutti bianchi d'argento, non ha ancora nel volto di gambero cotto la minima ruga, e può ancora tirar di scherma ogni mattina con giovanile agilità.

Ebbene, che importa? Tutte queste considerazioni, ideali e di fatto, sono per il signor Charles Trockley oziose e lontanissime dalla ragione. La ragione dice al signor Charles Trockley che io e lui, a conti fatti, il quindici e il ventotto di giugno dell'anno venturo avremo un anno di più, vale a dire quarantanove.

Premesso questo, udite che cosa è accaduto di recente al signor Charles Trockley e provatevi, se vi riesce, a dargli torto.

Lo scorso aprile, seguendo il solito itinerario tracciato dal Baedeker per un viaggio in Italia,Miss Ethel Holloway, giovanissima e vivacissima figlia di Sir W. H. Holloway, ricchissimo e autorevolissimo Pari d'Inghilterra, capitò in Sicilia, a Girgenti, per visitarvi i meravigliosi avanzi dell'antica città dorica. Allettata dall'incantevole piaggia tutta in quel mese fiorita del bianco fiore dei mandorli al caldo soffio del mare africano, pensò di fermarsi più d'un giorno nel grande Hôtel des Temples che sorge fuori dell'erta e misera cittaduzza d'oggi, nell'aperta campagna, in luogo amenissimo.


Da ventidue anni il signor Charles Trockley è vice-console d'Inghilterra a Girgenti, e da ventidue anni, ogni giorno, sul tramonto, si reca a piedi, col suo passo elastico e misurato, dalla città alta sul colle alle rovine dei Tempii akragantini, aerei e maestosi su l'aspro ciglione che arresta il declivio della collina accanto, la collina akrea, su cui sorse un tempo,

fastosa di marmi, l'antica città da Pindaro esaltata come bellissima tra le città mortali.

Dicevano gli antichi che gli Akragantini mangiavano ogni giorno come se dovessero morire il giorno appresso, e le lor case costruivano come se non dovessero morir mai. Poco ora mangiano, perchè grande è la miseria nella città e nelle campagne, e delle case della città antica, dopo tante guerre e sette incendii e i saccheggi, non resta più traccia. Sorge al posto di esse un bosco di mandorli e d'olivi saraceni, detto perciò il Bosco della Civita. E i chiomati olivi s'avanzano in teoria fin sotto alle colonne dei Tempii maestosi e par che preghino pace per quei clivi abbandonati. Sotto il ciglione scorre, quando può, il fiume Akragas che Pindaro glorificò come ricco di greggi. Qualche greggiola di capre attraversa tuttavia il letto sassoso del fiume: s'inerpica sul ciglione roccioso e viene a stendersi e a rugumare il magro pascolo all'ombra solenne dell'antico tempio della Concordia, integro ancora. Il caprajo, bestiale e sonnolento come un arabo, si sdraja anche lui sui gradini del pronao dirupati e trae qualche suono lamentoso dal suo zufolo di canna.


Al signor Charles Trockley questa intrusione delle capre nel tempio è sembrata sempre un'orribile profanazione; e innumerevoli volte ne ha fatto formale denunzia ai custodi dei monumenti, senza ottener mai altra risposta che un sorriso di filosofica indulgenza e un'alzata di spalle. Con veri fremiti d'indignazione il signor Charles Trockley di questi sorrisi e di queste alzate di spalle s'è lagnato con me che qualche volta lo accompagno in quella sua quotidiana passeggiata. Avviene spesso che, o nel tempio della Concordia, o in quello più su di Hera Lacinia, pèttine sdentato, o nell'altro detto volgarmente dei Giganti, di cui una sola colonna smozzicata resta in piedi come una sentinella ferita a guardia dei compagni caduti,avviene spesso, dicevo, che il signor Trockley s'imbatta in comitive di suoi compatriotti, venute dall'Hôtel des Temples a visitare le rovine. A tutti egli fa notare, con quell'indignazione che il tempo e l'abitudine non hanno ancora per nulla placato o affievolito, la profanazione di quelle capre sdrajate e rugumanti all'ombra delle colonne. Ma non tutti gl'inglesi visitatori, per dir la verità, condividono l'indignazione del signor Trockley. A molti anzi sembra non privo d'una certa poesia il riposo di quelle capre nei Tempii, rimasti come sono ormai solitarii in mezzo al grande e smemorato abbandono della campagna. Più d'uno, con molto scandalo del signor Trockley, di quella vista si mostra anche lietissimo e ammirato. E più di tutti lieta e ammirata se ne

mostrò, lo scorso aprile, la giovanissima e vivacissima Miss Ethel Holloway, la quale arrivò finanche a commettere l'indelicatezza di voltar le spalle improvvisamente all'indignato vice-console che l'accompagnava e che proprio in quel punto stava a darle alcune preziose notizie archeologiche, di cui nè il Baedeker nè altra guida hanno ancor fatto tesoro, per correre, Dio mio, dietro a un grazioso capretto nero, nato da pochi giorni, il quale springava qua e là tra le capre sdrajate, come se per aria attorno gli danzassero tanti moscerini di luce, e poi di quei suoi salti arditi e scomposti pareva restasse lui stesso sbigottito, chè ancora ogni lieve rumore, ogni alito d'aria, ogni piccola ombra, nello spettacolo per lui tuttora incerto della vita, lo facevano rabbrividire e fremer tutto di timidezza.

Quel giorno, io ero col signor Trockley, e se molto mi compiacqui della gioja di quella piccola Miss, così di subito innamorata del capretto nero, da volerlo a ogni costo comperare; molto anche mi dolsi di quanto toccò a soffrire al povero signor Charles Trockley.

- Comperare il capretto?

- Sì, sì! comperare subito! subito!

E fremeva tutta anche lei, la piccola Miss, come quella cara bestiolina nera, forse non supponendo neppur lontanamente che non avrebbe potuto fare un dispetto maggiore al signor Trockley, che quelle bestie odia da tanto tempo cordialmente.

Invano il signor Trockley si provò a sconsigliarla, a farle considerare tutti gl'impicci che le sarebbero venuti da quella compera: dovette cedere alla fine e, per rispetto al padre di lei, accostarsi al selvaggio caprajo per trattar l'acquisto del capretto nero.

Miss Ethel Holloway, sborsato il denaro della compera, disse al signor Trockley che avrebbe affidato il suo capretto al direttore dell'Hôtel des Temples; che poi, appena ritornata a Londra, avrebbe telegrafato perchè la cara bestiolina, pagate tutte le spese, le fosse al più presto recapitata; e se ne tornò in carrozza all'albergo, col capretto belante e guizzantetra le braccia.


Vidi, incontro al sole che tramontava fra un mirabile frastaglio di nuvole fantastiche, tutte accese sul mare che ne splendeva sotto come uno smisurato specchio d'oro, vidi nella carrozza nera quella bionda giovinetta gracile e fervida allontanarsi infusa nel nembo di luce sfolgorante, e quasi mi parve un sogno. Poi compresi che, avendo

potuto, pur tanto lontana dalla sua patria, dagli aspetti e dagli affetti consueti della sua vita, concepir subito un affetto così vivo, un così vivo desiderio per un piccolo capretto nero e senz'altro porlo in atto, senza misurare nè la distanza nè le difficoltà, ella non doveva avere neppure un briciolo di quella solida ragione, che con tanta gravità governa gli atti, i pensieri, i passi e le parole del signor Charles Trockley.

E che cosa aveva allora al posto della ragione la piccola Miss Ethel Holloway?

Nient'altro che la stupidaggine, sostiene il signor Charles Trockley con un furore a stento contenuto, che quasi quasi fa pena, in un uomo come lui, sempre così compassato.

La ragione del furore è nei fatti che son seguiti alla compera del capretto nero.

Miss Ethel Holloway partì il giorno dopo da Girgenti. Dalla Sicilia doveva passare in Grecia; dalla Grecia in Egitto; dall'Egitto nelle Indie.

È miracolo che, arrivata sana e salva a Londra su la fine di novembre, si sia ricordata ancora, dopo circa otto mesi e dopo tante avventure che certamente le saranno occorse in un così lungo viaggio, del capretto nero comperato un giorno lontano tra le rovine dei Tempii akragantini in Sicilia.

Appena arrivata, secondo il convenuto, scrisse per riaverlo al signor Charles Trockley.

L'Hôtel des Temples si chiude ogni anno alla metà di giugno per riaprirsi ai primi di novembre. Il direttore, a cui Miss Ethel Holloway aveva affidato il capretto, alla metà di giugno, partendo, lo aveva a sua volta affidato al custode dell'albergo, ma senz'alcuna raccomandazione, mostrandosi anzi seccato più d'un po' del fastidio che gli aveva dato e seguitava a dargli quella bestiola. Il custode aspettò di giorno in giorno che il vice-console signor Trockley, per come il direttore gli aveva detto, venisse a prendersi il capretto per spedirlo in Inghilterra; poi, non vedendo comparir nessuno, pensò bene, per liberarsene, di darlo in consegna a quello stesso caprajo che lo aveva venduto alla Miss, promettendoglielo in dono se questa, come pareva, non si fosse più curata di riaverlo, o un compenso per la custodia e la pastura, nel caso che il vice-console fosse venuto a richiederlo.


Quando, dopo circa otto mesi, arrivò da Londra la lettera di Miss Ethel

Holloway, tanto il direttore dell'Hôtel des Temples, quanto il custode, quanto il caprajo sitrovarono in un mare di confusione: il primo per aver affidato il capretto al custode; il custode per averlo affidato al caprajo, e questi per averlo a sua volta dato in consegna a un altro caprajo con le stesse promesse fatte a lui dal custode. Di questo secondo caprajo non s'avevano più notizie. Le ricerche durarono più d'un mese. Alla fine, un bel giorno, il signor Charles Trockley si vide presentare nella sede del vice-consolato in Girgenti un orribile bestione cornuto, fetido, dal vello stinto rossigno strappato e tutto incrostato di sterco e di mota, il quale, con rochi, profondi e tremuli belati, a testa bassa, minacciosamente, pareva domandasse che cosa si volesse da lui, ridotto per necessità di cose in quello stato, in un luogo così strano dalle sue consuetudini.

Ebbene, il signor Charles Trockley, secondo il solito suo, non si sgomentò minimamente a una tal vista; non tentennò un momento: fece il conto del tempo trascorso, dai primi d'aprile agli ultimi di dicembre, e concluse che, ragionevolmente, il grazioso capretto nero d'allora poteva esser benissimo quest'immondo bestione d'adesso. E senza neppure un'ombra d'esitazione rispose alla Miss, che subito gliel'avrebbe mandato da Porto Empedocle col primo vapore mercantile inglese di ritorno in Inghilterra. Appese al collo di quell'orribile bestia un cartellino con l'indirizzo di Miss Ethel Holloway e ordinò che fosse trasportata alla marina. Qui, lui stesso, mettendo a grave repentaglio la sua dignità, si tirò dietro con una fune la bestia restìa per la banchina del molo, seguito da una frotta di monellacci; la imbarcò sul vapore in partenza, e se ne ritornò a Girgenti, sicurissimo d'aver adempiuto scrupolosamente all'impegno, che non tanto per la deplorevole leggerezza di Miss Ethel Holloway, quanto per il rispetto dovuto al padre di lei, si era assunto.

Ieri, il signor Charles Trockley è venuto a trovarmi in casa in tali condizioni d'animo e di corpo, che subito, costernatissimo, io mi son lanciato a sorreggerlo, a farlo sedere, a fargli recare un bicchier d'acqua.

- Per amor di Dio, signor Trockley, che vi è accaduto?

Non potendo ancora parlare, il signor Trockley ha tratto di tasca una lettera e me l'ha porta.

Era di Sir H. W. Holloway, Pari d'Inghilterra, e conteneva una filza di gagliarde insolenze al signor Trockley per l'affronto che questi aveva osato fare alla figliuola Miss Ethel, mandandole quella spaventosa bestia inguardabile.

Questo, in ringraziamento di tutti i disturbi, che il povero signor Trockley s'è presi.

Ma che si aspettava dunque quella stupidissima Miss Ethel Holloway? Si aspettava forse che, a circa undici mesi dalla compera, le arrivasse a Londra quello stesso capretto nero che springava piccolo e lucido, tutto frementedi timidezza, tra le colonne dell'antico Tempio greco in Sicilia? Possibile? Il signor Charles Trockley non se ne può dar pace.

Nel vedermelo davanti in quello stato, io ho preso a confortarlo del mio meglio, riconoscendo con lui che veramente quella Miss Ethel Holloway dev'essere una creatura, non solo capricciosissima, ma del tutto irragionevole.

- Stupida! stupida! stupida!

- Diciamo meglio irragionevole, caro signor Trockley, amico mio. Ma vedete, -(mi son permesso d'aggiungere timidamente) - ella, andata via lo scorso aprile con negli occhi e nell'anima l'immagine graziosa di quel capretto nero, non poteva, siamo giusti, far buon viso(così irragionevole com'è evidentemente) alla ragione che voi, signor Trockley, le avete posta innanzi all'improvviso con quel caprone mostruoso che le avete mandato.

- Ma dunque? - mi ha domandato, rizzandosi e guardandomi con occhio nemico, il signor Trockley. - Che avrei dovuto fare, dunque, secondo voi?

- Non vorrei, signor Trockley, - mi sono affrettato a rispondergli imbarazzato, - non vorrei sembrarvi anch'io irragionevole come la piccola Miss del vostro paese lontano. Ma al posto vostro, signor Trockley, sapete che avrei fatto io? O avrei risposto a Miss Ethel Holloway che il grazioso capretto nero era morto per il desiderio de' suoi baci e delle sue carezze; o avrei comperato un altro capretto nero, piccolo piccolo e lucido, simile in tutto a quello da lei comperato lo scorso aprile e gliel'avrei mandato, sicurissimo che Miss Ethel Holloway non avrebbe affatto pensato che il suo capretto non poteva per undici mesi essersi conservato così tal quale. Séguito con ciò, come vedete, a riconoscere che Miss Ethel Holloway è del tutto irragionevole e che la ragione sta intera e tutta dalla parte vostra, come sempre, caro signor Trockley, amico mio.

I PENSIONATI DELLA MEMORIA.

Ah che bella fortuna, che bella fortuna, la vostra: accompagnare i morti al camposanto e ritornarvene a casa, signori miei, magari con una gran tristezza nell'anima e un gran vuoto nel cuore, se il morto vi era caro; e se no, con la soddisfazione d'aver compiuto un dovere increscioso e desiderosi di dissipare, rientrando nelle cure e nel tramenìo della vita, la costernazione e l'ambascia che il pensiero e lo spettacolo della morte incutono sempre. Tutti, a ogni modo, con un senso di sollievo, perchè, anche per i parenti più intimi, il morto - diciamo la verità - con quella greve gelida immobile durezza impassibilmente opposta a tutte le cure che ce ne diamo, a tutto il pianto che gli facciamo attorno, è un orribile ingombro, di cui lo stesso cordoglio - per quanto accenni e tenti di volersene ancora disperatamente gravare - anela in fondoin fondo di liberarsi.

E ve ne liberate, voi, - almeno di quest'orribile ingombro materiale - andando a lasciare i vostri morti al camposanto. Sarà una pena, sarà un fastidio; ma poi vedete sciogliersi il mortorio; calare il feretro nella fossa; là, e addio. Finito.

Vi sembra poca fortuna?

A me, tutti i morti che accompagno al camposanto, mi ritornano indietro.

Indietro, indietro. Fanno finta d'esser morti, dentro la cassa. O forse veramente sono morti per sè. Ma non per me, vi prego di credere! Quando tutto per voi è finito, per me non è finito niente. Se ne rivengono meco, tutti, a casa mia. Ho la casa piena. Voi credete di morti? Ma che morti! Sono tutti vivi. Vivi, come me, come voi, più di prima.

Soltanto - questo sì - sono disillusi.

Perchè - riflettete bene: che cosa può esser morto di loro? Quella realtà ch'essi diedero, e non sempre uguale, a sè medesimi, alla vita. Oh, una realtà molto relativa, vi prego di credere. Non era la vostra; non era la mia. Io e voi, infatti, vediamo, sentiamo e pensiamo, ciascuno a modo nostro noi stessi e la vita. Il che vuol dire, che a noi stessi e alla vita diamo ciascuno a modo nostro una realtà: la projettiamo fuori e crediamo che, così com'è nostra, debba essere anche di tutti; e allegramente ci viviamo in mezzo e ci camminiamo sicuri, il bastone in mano, il sigaro in bocca.


Ah, signori miei, non ve ne fidate troppo! Basta un soffio, signori miei, a portarsela via, codesta vostra realtà! Ma non vedete che vi cangia

dentro di continuo? Cangia, appena cominciate a vedere, a sentire, a pensare un tantino diversamente di poc'anzi; sicchè ciò che poc'anzi era per voi la realtà, v'accorgete adesso ch'era invece un'illusione. Ma pure, ahimè, c'è forse altra realtà fuori di questa illusione? E che cos'altro è dunque la morte se non la disillusione totale?

Ma ecco: se sono tanti poveri disillusi i morti, per l'illusione che si fecero di sè medesimi e della vita; per quella che me ne faccio io ancora, possono aver la consolazione di viver sempre, finchè vivo io. E se n'approfittano! V'assicuro che se n'approfittano.

Guardate. Ho conosciuto, più di vent'anni fa, in terra(Dio ne scampi!) di tedeschi - a Bonn sul Reno - un certo signor Herbst. Herbst vuol dire autunno; ma il signor Herbst era anche d'inverno, di primavera e d'estate, cappellajo, e aveva bottega in un angolo della Piazza del Mercato, presso la Beethoven-Halle.

Vedo quel canto della piazza, come se vi fossi ancora, di sera; ne respiro gli odori misti esalanti dalle botteghe illuminate, odori grassi;e vedo i lumi accesi anche innanzi la vetrina del signor Herbst, il quale se ne sta su la soglia della bottega con le gambe aperte e le mani in tasca. Mi vede passare, inchina la testa e mi augura, con la special cantilena del dialetto renano:

- Gute Nacht, Herr Docktor!

Sono trascorsi più di vent'anni. Ne aveva, a dir poco, cinquantotto il signor Herbst, allora. Ebbene, forse a quest'ora sarà morto. Ma sarà morto per sè, non per me, vi prego di credere. Ed è inutile, proprio inutile che mi diciate che siete stati di recente a Bonn sul Reno e che nell'angolo della Marktplatz accanto alla Beethoven-Halle non avete trovato traccia nè del signor Herbst nè della sua bottega di cappellajo. Che ci avete trovato invece? Un'altra realtà, è vero? E credete che sia più vera di quella che ci lasciai io vent'anni fa? Ripassate, caro signore, di qui ad altri vent'anni, e vedrete che ne sarà di questa che ci avete lasciato voi adesso.

Quale realtà? Ma credete forse che la mia di vent'anni fa, col signor Herbst su la soglia della sua bottega, le gambe aperte e le mani in tasca, sia quella stessa che si faceva di sè e della sua bottega e della Piazza del Mercato, lui, il signor Herbst? Ma chi sa il signor Herbst come vedeva sè stesso e la sua bottega e quella piazza!


No, no, cari signori: quella era una realtà mia, unicamente mia, che

non può cangiare nè perire, finchè io vivrò, e che potrà anche vivere eterna, se io avrò la forza d'eternarla in qualche pagina, o almeno, via, per altri cento milioni d'anni, secondo i calcoli fatti or ora in America circa la durata della Terra.

Ora, com'è per me del signor Herbst tanto lontano, se a quest'ora è morto; così è dei tanti morti che vado ad accompagnare al camposanto e che se ne vanno anch'essi per conto loro assai più lontano e chi sa dove. La realtà loro è svanita: ma quale? quella ch'essi davano a sè medesimi. E che potevo saperne io, di quella loro realtà? Che ne sapete voi? Io so quella che davo ad essi per conto mio. Illusione la mia e la loro.

Ma se essi, poveri morti, si sono totalmente disillusi della loro, l'illusione mia ancora vive ed è così forte che io, ripeto, dopo averli accompagnati al camposanto, me li vedo ritornare indietro, tutti, tali e quali, pian piano, fuori della cassa, accanto a me.

- Ma perchè, - voi dite, - non se ne ritornano alle loro case, invece di venirsene acasa vostra?

Oh bella! ma perchè non hanno mica una realtà per sè, da potersene andare dove lor piace. La realtà non è mai per sè. Ed essi l'hanno, ora, per me, e con me dunque per forza se ne debbono venire.

Poveri pensionati della memoria, oh, la disillusione loro m'accora indicibilmente.

Dapprima, cioè appena terminata l'ultima rappresentazione(dico dopo l'accompagnamento funebre) quando rivengon fuori dal feretro per ritornarsene con me a piedi dal camposanto, hanno una certa balda vivacità sprezzante, come di chi si sia scrollato con poco onore, è vero, a costo di perder tutto, un gran peso d'addosso e, pur rimasto come peggio non si potrebbe, voglia tuttavia rifiatare. Eh sì! almeno, via, un bel respiro di sollievo. Tante ore, lì, rigidi, immobili, impalati su un letto, a fare i morti.... Vogliono sgranchirsi: girano e rigirano il collo; alzano or questa or quella spalla; stirano, storcono, dimenano le braccia; vogliono muover le gambe speditamente e anche mi lasciano di qualche passo indietro. Ma non possono mica allontanarsi troppo. Sanno bene d'esser legati a me, d'aver ormai in me soltanto la loro realtà, o illusione di vita, che fa proprio lo stesso.


Altri - parenti - qualche amico - li piangono, li rimpiangono, ricordano questo o quel loro tratto, soffrono della loro perdita; ma questo pianto, questo rimpianto, questo ricordo, questa sofferenza sono per una realtà

che fu, ch'essi credono svanita col morto, perchè non hanno mai riflettuto sul valore di questa realtà.

Tutto è per loro l'esserci o il non esserci d'un corpo.

Basterebbe a consolarli il credere che questo corpo non c'è più, non perchè sia già sotterra, ma perchè è partito, in viaggio, e ritornerà chi sa quando.

Su, lasciate tutto com'è: la camera pronta per il suo ritorno; il letto rifatto, con la coperta un po' rimboccata e la camicia da notte distesa; la candela e la scatola dei fiammiferi sul comodino; le pantofole innanzi alla poltrona, a piè del letto.

- È partito. Ritornerà.

Basterebbe questo. Sareste consolati. Perchè? Perchè voi date una realtà per sè a quel corpo, che invece, per sè, non ne ha nessuna. Tanto vero che - morto - si disgrega, svanisce.

- Ah, ecco, - esclamate voi ora. - Morto! Tu dici che, morto, si disgrega; ma quando era vivo? Aveva una realtà!

Cari miei, torniamo daccapo? Ma sì, quella realtà ch'egli si dava e che voi gli davate. E non abbiamo provato ch'era un'illusione? La realtà ch'egli si dava, voi non la sapete, non potete saperla perchè era fuori di voi; voi sapete quella che gli davate voi. E non potete forse ancor dargliela senza vedereil suo corpo? Ma sì! tanto vero, che subito vi consolereste, se poteste crederlo partito, in viaggio. Dite di no? E non seguitaste forse a dargliela tante volte, sapendolo realmente partito, in viaggio? E non è forse quella stessa che io dò da lontano al signor Herbst, che non so se per sè sia vivo o morto?

Via, via! sapete perchè voi piangete, invece? Per un'altra ragione piangete, cari miei, che non supponete neppur lontanamente. Voi piangete perchè il morto, lui, non può più dare a voi una realtà. Vi fanno paura i suoi occhi chiusi, che non vi possono più vedere; quelle sue mani dure gelide, che non vi possono più toccare. Non vi potete dar pace per quella sua assoluta insensibilità. Dunque, proprio, perchè egli, il morto non vi sente più. Il che vuol dire che vi è caduto con lui, per la vostra illusione, un sostegno, un conforto: la reciprocità dell'illusione.

Quand'egli era partito, in viaggio, voi, sua moglie, dicevate:

- Se egli da lontano mi pensa, io sono viva per lui.

E questo vi sosteneva e vi confortava. Ora ch'egli è morto, voi non dite più:

- Io non sono più viva per lui!

Dite invece:

- Egli non è più vivo per me!

Ma sì ch'egli è vivo per voi! Vivo per quel tanto che può esser vivo, cioè per quel tanto di realtà che voi gli avete dato. La verità è che voi gli deste sempre una realtà molto labile, una realtà tutta fatta per voi, per l'illusione della vostra vita, e niente o ben poco per quella di lui.

Ed ecco perchè i morti se ne vengono da me, ora. E con me - poveri pensionati della memoria - amaramente ragionano su le vane illusioni della vita, di cui essi al tutto si sono disillusi, di cui non posso ancora disilludermi al tutto anch'io, benchè come loro le riconosca vane.

RONDONE E RONDINELLA.

Chi fosse Rondone e chi Rondinella nè lo so io veramente, nè in quel paesello di montagna, dove ogni estate venivano a fare il nido per tre mesi, lo sa nessuno.

La signorina dell'ufficio postale giura di non essere riuscita in tanti anni a cavare un suono umano, mettendo insieme i k, le h, i w e tutti gli f del cognome di lui e del cognome di lei, nelle rarissime lettere che ricevevano. Ma quand'anche la signorina dell'ufficio postale fosse riuscita a compitare quei due cognomi, che se ne saprebbe di più?

Meglio così, penso io. Meglio chiamarli Rondone e Rondinella, come tutti li chiamavano in quel paesello di montagna: Rondone e Rondinella, non solo perchè ritornavano ogn'anno, d'estate, non sisa donde, al vecchio nido; non solo perchè andavano, o meglio, svolavano irrequieti dalla mattina alla sera per tutto il tempo che durava il loro soggiorno colà; ma anche per un'altra ragione un po' meno poetica.

Forse nessuno in quel paesello avrebbe mai pensato di chiamarli così, se quel signore straniero, il primo anno, non fosse venuto con un lungo farsetto nero di saja, dalle code svolazzanti, e in calzoni bianchi; e anche se, cercando una casetta appartata per la villeggiatura, non avesse scelto la villetta del medico e sindaco del paese, piccola piccola, come un nido di rondine, su in cima al greppo detto della Bastìa, tra i castagni.


Piccola piccola, quella villetta, e tanto grosso lui, quel signore straniero! Oh, un pezzo d'omaccione sanguigno, con gli occhiali d'oro e la barba nera, che gl'invadeva arruffata e prepotente le guance, quasi fin

sotto gli occhi, pur senza dargli alcuna aria fosca o truce, perchè gli spirava anzi da tutto il corpo vigoroso una cordialità franca, esuberante, possente.

Con la testa alta sul torace erculeo pareva fosse sempre sul punto di lanciarsi, con impeto d'anima infantile, a qualche richiamo misterioso, lontano, che lui solo intendeva: o su in vetta al monte, o giù nella valle sterminata, ora da una parte ora dall'altra. Ne ritornava, sudato, infocato, anelante, o con una conchiglietta fossile in un pugno, o con un fiorellino in bocca, come se proprio quella conchiglietta o quel fiorellino lo avessero chiamato all'improvviso da miglia e miglia lontano, su dal monte o giù dalla valle.

E vedendolo andar così, con quel farsetto nero e quei calzoni bianchi, come non chiamarlo Rondone?

La Rondinella era arrivata, il primo anno, circa quindici giorni dopo di lui, quand'egli aveva già trovato e apparecchiato il nido lassù, tra i castagni.

Era arrivata improvvisamente, senza che egli ne sapesse nulla, e aveva molto stentato a far capire che cercava di quel signore straniero, e che voleva esser guidata alla casa di lui.

Ogni anno la Rondinella arrivava due o tre giorni dopo, e sempre così all'improvviso. Un anno solo, arrivò un giorno prima di lui. Il che dimostra chiaramente che tra loro non c'era intesa, e che qualche grave ostacolo dovesse impedir loro d'aver notizia l'uno dell'altra. Certo, come dai bolli postali su le lettere si ricavava, abitavano nel loro paese in due città diverse.

Sorse sin da principio il sospetto, ch'ella fosse maritata, e che ogn'anno, lasciata libera per tre mesi, venisse là a trovar l'amante, a cui non poteva neanche dar l'annunzio del giorno preciso dell'arrivo. Ma come conciliare questi impedimenti e tanto rigor di sorveglianza su lei con la libertà intera, dicui ella poi godeva nei tre mesi estivi in Italia?

Forse i medici avevano detto al marito che la rondinella aveva bisogno di sole; e il marito accordava ogn'anno quei tre mesi di vacanza, ignaro che la rondinella, oltre che di sole, anzi più che di sole, andava in Italia a far cura d'amore.


Era piccola e diafana, come fatta d'aria; con limpidi occhi azzurri, ombreggiati da lunghissime ciglia: occhi timidi e quasi sbigottiti, nel

gracile visino. Pareva che un soffio la dovesse portar via, o che, a toccarla appena appena, si dovesse spezzare. A immaginarla tra le braccia di quel pezzo d'omone impetuoso, si provava quasi sgomento.

Ma tra le braccia di quell'omone, che nella villetta lassù la attendeva impaziente, con un fremito di belva intenerita, ella, così piccola e gracile, correva ogni anno a gettarsi felice, senza nessuna paura, non che di spezzarsi, ma neppur di farsi male un pochino. Sapeva tutta la dolcezza di quella forza, tutta la leggerezza sicura e tenace di quell'impeto, e s'abbandonava a lui perdutamente.

Ogni anno, per il paese, l'arrivo di Rondinella era una festa.

Così almeno credeva Rondinella.

La festa, certo, era dentro di lei, e naturalmente la vedeva per tutto, fuori. Ma sì, come no? Tutte le vecchie casette, che il tempo aveva vestite d'una sua particolar pàtina rossigna, aprivano le finestre al suo arrivo, rideva l'acqua delle fontanelle, gli uccelli parevano impazziti dalla gioja.

Rondinella, certo, intendeva meglio i discorsi degli uccelli, che quelli de la gente del paese. Anzi questi non li intendeva affatto. Quelli degli uccelli pareva proprio di sì, perchè sorrideva tutta contenta e si voltava di qua e di là al cinguettìo dei passeri saltellanti tra i rami delle alte querce di scorta all'erto stradone, che saliva da Orte al borgo montano.

La vettura, carica di valige e di sacchetti, andava adagio, e il vetturino non poteva fare a meno di voltarsi indietro di tratto in tratto a sorridere alla piccola Rondinella, che ritornava al nido come ogn'anno, e a farle cenno con le mani, che lui già c'era, il suo Rondone: sì, lassù, da tre giorni; c'era, c'era....

Rondinella alzava gli occhi al monte ancora lontano, su cui i castagni, ove non batteva il sole, s'invaporavan d'azzurro, e forzava gli occhi a scoprire lassù lassù il puntino roseo della villetta.

Non la scopriva ancora; ma ecco là il castello antico, ferrigno, che domina il borgo; ed ecco più giù l'ospizio dei vecchi mendichi, che hanno accanto il cimitero, e stanno lì come a fare anticamera, in attesa che la signora morte li riceva.


Appiè del borgo, incombente su lo stradone serpeggiante, il boschetto delle nere elcimaestose dava a Rondinella, ogni volta che vi passava sotto, un senso di freddo e quasi di sgomento. Ma durava poco. Subito

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