Vuole la nostra morte?
Benedetta.
Lavora dalla parte delle logge,
o Signorìa, con vénti manovali,
a mettere puntelli e stanghe e sbarre;
e dice che gli tocca lavorare
anco stanotte al lume dette fiaccole;
ché quella parte è tutta
crepe e crepacci, e pende che a vederla
fa spavento. Il pietrame
si sgretola, si scioglie
in sabbia, come tufo; anco il mattone,
peggio che crudo fosse.
Annabella.
Questa mane
è rotolata già dalla sua nicchia
la Regina Giovanna; e il Re Roberto
tentenna, Signorìa.
Benedetta.
E l'aquila è caduta dal sepolcro
del vescovo Berardo.
Annabella.
Anco la fontanella di Gioietta
ammutolita s'è. La gromma intasa
tutto: le tre cannelle sono secche.
S'alza. Va a sollevare il disco di pietra nel pavimento. Prova a dar l'acqua.
Gira e volta la chiave nel chiusino,
l'acqua non passa più!
Lascia ricadere il disco. Guarda la fontana.
Una cannella sola
ancóra dà una gocciola ogni tanto.
Peccato! Ci teneva compagnia.
Benedetta.
Pericola il soffitto nella stanza
della contessa Loretella. E tutti
gli specchi torbi intorno si son rotti
(piano, fuso, che non si rompa il filo)
dove ci si vedeva nelle macchie
non so che cose del tempo che fu.
Annabella.
Ci si vedeva il viso
della contessa, e l'appannava il fiato
suo, come dietro il vetro
d'una finestra quando
s'aspetta che uno passi e gli occhi attenti
si velano alla pena del fiatare,
(piano, arcolaio, ché la matassa è scura)
e solo sta quel velo innanzi agli occhi,
e solo passa il tempo, e nulla più.
Benedetta.
Caduti sono i travicelli e gli émbrici
sul pavimento; e c'è piovuto: un croscio
d'acqua, un rovescio di gragnuola: ed ora
svolacchiano le rondini pel varco...
O Signorìa, che pensi?
Donna Aldegrina.
Dove sarà Gigliola?
È la vigilia della Pentecoste
oggi.
Annabella.
Oggi fa l'anno.
Benedetta.
Verso sera.
Annabella.
Non volle
detta la messa di requie stamani.
Vuol che si dica dopo Pentecosta.
Chi sa perché!
Donna Aldegrina.
Dove sarà Gigliola?
Benedetta.
Nel giardino sarà per la ghirlanda.
Annabella.
A cogliere i papaveri selvaggi?
Ma di quel rosso non si fa ghirlanda.
Men sùbito s'accaglia il sanguesparso
che quello non si guasti. O Signorìa,
tutto inselvatichito è il tuo giardino,
e tristo come il campo di nessuno.
Anche i pavoni l'hanno abbandonato.
Donna Aldegrina.
Dove sarà Gigliola, ed il suo cuore?
Annabella.
Va per la casa, per le cento stanze
va come ieri andò, come andrà sempre,
con quel suo cuore che tanto le pesa.
Tanto le pesa che s'è fatta curva.
E non ha pace, e non si stanca mai.
E va di porta in porta,
ecco apre un uscio, dietro a sé lo chiude,
sale una scala, scende un'altra scala,
piglia un andito, passa un corridore,
a una loggia s'affaccia,
attraversa una corte,
sparisce in un androne;
e risale e riscende e non ha pace
e cerca cerca cerca e mai non trova...
Ah, questa casa chi la fabbricò
tanto grande? e perché con tante porte?
A quanti mali ei volle dare albergo?
S'odono voci di fatica lontane e confuse. S'ode la cadenza che accompagna lo sforzo.
Benedetta.
I manovali vociano.
Donna Aldegrina.
Annabella, Annabella,
odi un rumore fondo?
Qualche cosa rovina
in qualche parte, laggiù... Corri, guarda.
Annabella.
No. Signorìa, non paventare. È il fiume
che mugghia, è il Sagittario che si gonfia
nelle gole. Si sciolgono le nevi
ai monti, alla Terrata, all'Argatone;
e il Sagittario sùbito s'infuria.
Mentre Annabella parla, l'ombra d'un uomo appare contro il cancello in fondo all'arcata di mezzo. Appare e dispare.
Benedetta.
L'uomo, l'uomo! L'ho visto
dietro il cancello, che spiava...
Donna Aldegrina.
Quale
uomo? Chi è?
Annabella corre al cancello e guata.
Benedetta.
Stava alla posta; e sùbito
s'è ritratto. È passato
per la muraglia rotta,
là, dietro la fontana
della Ginevra, certo. L'hai tu scorto,
Annabella?
Donna Aldegrina.
Ma quale
uomo?
Benedetta.
Da ieri sera
un uomo gira intorno
alla casa. È un serparo:
porta i sacchetti di pelle caprina
alle spalle, alla cintola; ha il suo flauto
di stinco per l'incanto, e su le mani
e sui polsi è marchiato
dal ferro della mula di Foligno.
Signorìa, non udisti
iersera quel richiamo
ch'ei faceva col flauto
ad ora ad ora sotto le finestre?
Annabella.
L'ho traveduto: s'è gettato a terra,
e sguiscia sotto i bòssoli, laggiù,
verso il Vivaio.
Donna Aldegrina.
E perchè viene? Ha fame
forse. Vuol far ballare le sue serpi
innanzi a noi. Ditelo a Simonetto,
che questo gioco almeno lo rallegri.
Benedetta.
Non per questo è venuto, Signorìa.
Ha già parlato, ha dimandato. Cerca
la femmina di Luco.
Donna Aldegrina.
Angizia?
Benedetta.
Vien dal Fùcino, dai boschi
dei Marsi.
Donna Aldegrina.
Ebbene?
Benedetta.
Dice ch'è parente.
È forse il padre. Certo, le somiglia.
Ha li stessi occhi.
Donna Aldegrina.
Ah figlio mio demente!
Annabella dalla loggetta.
Signorìa, Don Tibaldo è nella corte
col fratellastro. E Don Bertrando sembra
che s'adiri. Hanno diverbio tra loro.
Gigliola discendendo la scala esce dall'ombra del voltone, vestita di gramaglia, in atto d'inseguire perdutamente qualcuno che le sfugga, pallida, anelante, con gli occhi allucinati. S'arresta e vacilla. Ha la voce rotta.
Gigliola.
Nonna, sei qui? sei tu?
Donna Aldegrina.
Gigliola!
Gigliola.
Sei
qui, nutrice, Annabella! Benedetta!
Donna Aldegrina.
Chehai? Dove correvi?
Annabella.
Perchè tremi?
Benedetta.
Chi t'ha fatto spavento?
Gigliola.
Nonna, nonna,
non l'hai veduta? Dimmi!
Donna Aldegrina.
Chi, cuor mio? Chi?
Gigliola.
Non era avanti a me?
Non è passata?
Donna Aldegrina.
Chi?
Annabella a bassa voce.
Non dimandare,
Signorìa. Tu lo sai. Non dimandare!
Guardale gli occhi.
Gigliola, subitamente dominando l'ambascia, mentre la visione le si spegne nelle ciglia.
Sono pazza. Questo
tu vuoi dire, nutrice?
Ho la pazzia negli occhi.
Me l'ha data in contagio
quella povera zia Giovanna, forse;
che lassù, che lassù nella prigione
urla, e nessuno l'ode.
Ancora un giorno, un giorno solo, e poi...
Nonna, domani è il dì di Pentecoste.
Questa notte è la festa
delle lingue di fuoco.
Se lo Spirito viene anche su me,
io che ho sempre taciuto, parlerò.
Si siede presso la fontanella.
Donna Aldegrina.
Non t'appenare. Non ti divorare
così l'anima tua.
Giovine sei. Pensa a una casa nova,
pensa al nido ove un giorno
tu ricomincerai la tua canzone
con la tua gola fresca.
Gigliola.
Oh, che dici? che dici? La parola
più crudele! L'orrore
su le labbra più care! Dove soffro
tu mi tocchi. E lo sai.
Non ho qui nella gola
anch'io la lividura
e il gonfiore e la piaga,
e la secchezza sempre?
Io non porto le stìmate di Cristo,
i segni della passione santa.
Ma le stìmate porto
di quella carne che mi generò.
E ne sanguino e brucio.
Non mi fu medicina il mio silenzio.
Oggi fa l'anno che mia madre cadde
nella tagliuola orrenda, tratta fu
all'insidia impensata, presa fu
dall'astuzia selvaggia
nell'ordegno di morte... Ah, ecco il giorno!
Oggi parlo, se il dubbio è verità.
Si solleva agitata.
Donna Aldegrina.
O Gigliola, mio cuore, tenerezza
e spina del cuor mio
desolato, o Gigliola,
o tu piccola, sempre,
pe' capelli miei bianchi,
non mi fare paura,
non m'affannare così! D'improvviso
divampi. Tutta m'appari affocata
dalla tua febbre nascosta, agitata
dal tuo sogno furente;
e la tua faccia si muta, e si muta
la tua voce; e più nulla
di quel che in te fu la grazia del primo
fiore e fu il pane mio dolce fra tanta
amarezza, più nulla
rimane. E più non so se tu sii quella
che appoggiava la gota a questi poveri
ginocchi ed ascoltava
senza batter le ciglia
la mia favola lunga.
Gigliola.
T'ho fatto pena. Che ho detto? Nulla.
Mi si svanisce il capo,
qualche volta, non so.
Tutto va, tutto passa.
L'ombra è là, e nessuno
deve guardarla. I giorni
sono eguali, e si vive.
È vero. Si può vivere
in pace, e avere gioia
da un fil d'erba che trema
sul davanzale al soffio
che viene non si sa
di dove, non si sa
di dove! Si può vivere
in pace e avere gioia
dalla piuma che cade,
dal volo d'una rondine...
Sì, mi ricordo. Vedo ogni mattina
Assunta della Teve
seduta su la sedia sua di paglia,
laggiù nel vano della sua finestra,
che cuce le lenzuola, ed è tranquilla;
e i giorni sono eguali;
ed ella s'alzaquando il padre torna;
e non si sente ella mancare il cuore
per pietà di quel povero sorriso
che l'uomo fa con le sue labbra smorte
quando gli passa nella schiena il freddo
della vergogna...
Donna Aldegrina.
Oh perchè, se sei dolce,
mi fai più pena? Hai gli occhi asciutti; e sembra
che ogni parola tua traversi un mare
di pianto, prima d'arrivare a me.
Sièditi.
Gigliola.
Sì. Ecco, mi siedo. Sono
in pace. Appoggerò la gota ai tuoi
ginocchi, come allora. Non si deve
soffrire. Cucirò
i teli, come Assunta della Teve,
seduta accanto alla finestra. E quando
verrà mio padre, non lo guarderò,
perché non faccia quel sorriso. E quando
verrà la moglie di mio padre, allora
m'alzerò come innanzi alla padrona
mia legittima. O nonna,
sì, lo so: per ciascuno
viene la volta del servire. Quella
spazzava tra due porte, con le braccia
nude e la gonna rialzata ai fianchi,
e il vento del riscontro
le sollevava intorno l'immondezza
e glie la rigettava contro il viso...
Mi ricordo. La vedo.
Donna Aldegrina.
Ora il tuo capo pesa come il bronzo;
ch'era così leggero!
Gigliola.
Pesa? Dimmi: perché
mille pensieri insieme
non hanno il peso d'un pensiero solo,
quando è solo? Io lo scuoto, e me ne libero.
Si può vivere in pace.
Che cosa mai accade? Nulla. I giorni
sono eguali, e si vive.
Il mio fratello è ancóra nel suo letto
con la fronte voltata verso il muro.
È sempre stanco, e pieno di terrore.
Ma vive. Ascolta i passi
che fa la zia Giovanna
nella stanza di sopra,
rinchiusa a doppia chiave;
i passi e i balzi e i gridi sordi conta,
ch'ella fa per sfuggire
a quello sconosciuto
ch'è rinchiuso con lei,
a quell'essere enorme
e beffardo ch'è nato
a poco a poco dalla malattia,
che s'è nutrito e ha fatto l'ossa ed ora
è il compagno e il nemico,
il custode e il padrone;
che ha più carne di lei,
che ha più soffio di lei,
che la guarda, le parla,
le s'accosta, la tocca,
le rifiata vicino
intollerabilmente,
visibile e palpabile
per lei sola...
Donna Aldegrina.
No, no!
Taci.
Ella pone le sue mani scarne su la bocca di Gigliola.
Sei devastata,
sei disperata fino a dentro, sei
bruciata fino alta radice. Tutto
quel che è misero e offeso
e rotto e agonizzante
parla per la tua bocca. Sei la voce
della nostra ruina,
di tutte le ruine senza scampo.
O mia povera povera
povera creatura,
piccola anima mia,
per me piccola sempre,
chi ti consolerà?
chi t'inumidirà un'altra volta
queste pàlpebre secche? Ahimè! Ahimè!
Una pietra, una terra calcinata,
una stoppia riarsa.
E che farò per te io vecchia e lógora?
Chi mai chi mai farà per te nel mondo
alcuna cosa, o piccola mia sola?
Gigliola.
Io, io farò. Fare bisogna, fare
bisogna. Alzarmi debbo,
restar diritta in piedi fino all'ora
di coricarmi. Baciami la fronte.
Mi bacerai a sera un'altra volta.
Così. M'alzo. Il coraggio non vacilla.
Stanottei manovali
lavoreranno al lume delle fiaccole.
Non lo sai? Tutta notte.
Anch'io anch'io laggiù, in qualche parte,
ho una fiaccola rossa
nascosta sotto il moggio,
sotto un moggio vecchissimo nascosta
che non misura più perché non tiene
più né grano né orzo.
Entro i cerchi di ferro rugginoso
ha le doghe sconnesse.
Quella terrò nel pugno, a rischiarare
il travaglio notturno
intorno alla ruina.
E se la casa crolla
io sono certa che una sepoltura
resterà ferma e immune.
Lo prometto.
Donna Aldegrina.
Gigliola, dove vai?
Gigliola.
A promettere.
Entra sotto l'arcata dei mausolei: sparisce per la porta della cappella.
Donna Aldegrina.
Séguila, Annabella.
Séguila in ogni passo.
Non la lasciare mai.
Ho paura, ho paura.
Annabella.
Signorìa, non m'attento.
Vuol sempre stare sola quando scende
alla Cappella e s'inginocchia
a quella sepoltura.
Posso mettermi là, dietro la porta.
Donna Aldegrina.
Non la lasciare. Va. Tu, Benedetta,
guarda chi è su per la scala bassa.
Benedetta, origliando.
È la voce di Don Bertrando. Sale
col fratellastro. Sento anche la voce
di Don Tibaldo.
Donna Aldegrina.
Si sarà levato
Simonetto? Che ora
è?
Benedetta.
Quasi ventun'ora, Signorìa.
Donna Aldegrina.
Va, va di sopra. Guarda
se dorme ancóra. Non lo risvegliare
se dorme. Ma se è sveglio
fa che si levi, e prenda
la medicina.
Benedetta.
Signorìa, non vuole
la sorella che prenda medicina
se non glie la prepara
con le sue mani.
Donna Aldegrina.
Perché?
Benedetta.
Io non so.
Ha il suo pensiero.
Donna Aldegrina.
Salgo anch'io fra poco.
Annabella! Annabella!
La vecchia scompare sotto l'arcata chiamando sommessamente la nutrice. Con lei entra nella cappella. Benedetta si avvia su per la scala, sospirando.
Entrano, per la scala che dà su la loggetta, sotto l'armatura di travi e di corde, Tibaldo de Sangro e Bertrando Acclozamòra, i fratellastri.
Bertrando.
Dunque rifiuti? È l'ultima parola?
Tibaldo.
Non ho manco un tornese!
Non so come farò
a pagar la giornata
dei manovali. E se non pago, Mastro
Domenico di Pace
lascia che tutto vada a precipizio:
leva i puntelli. Intendi?
Bertrando.
Tu mentisci.
Tibaldo.
Vedi: mia madre fruga
tutte le cartapecore
degli scaffali, mette sottosopra
l'archivio, lo riscontra a filza a filza,
ci si logora gli occhi...
Ah, se si ritrovasse l'istrumento
di quel vincolo fidecommissario,
nella lite che abbiamo coi Mormile!
Bertrando.
Non divagare. Ti domando ancóra
una volta: mi dài quella miseria?
Tibaldo.
Ma se ti dico che non ho un tornese!
Credimi.
Bertrando.
Tu mentisci.
Non riscotesti ieri
da Crescenzo Castoldo
centoventi ducati di caparra
pel grano che gli devi consegnare
dopo la mietitura?
Tibaldo.
Non è vero.
Bertrando.
Hai coraggio di negarlo!
Bene ti s'è indurato
il sangue su cotesto viso giallo,
come la sugna ràncida
nella vescica risecchita.
Tibaldo.
Ancóra
cerchi di sopraffarmi con l'ingiuria.
È il raccolto del campo di Malvese,
ch'è di mio figlio, dell'eredità
di sua madre.
Bertrando.
Ma il frutto è tuo.
Tibaldo.
Non posso
toccarlo.
Bertrando.
Tu! tu che conficchi ovunque
le tue granfie ed hai solo
lo scrupolo del tarlo
che ha roso il Cristo e non voleva rodere
il chiodo! Razza dei Sangro.
Tibaldo.
Ma chi,
ma chi è che mi succhia,
chi è che mi dissangua da vent'anni
senza tregua?
Bertrando.
Di tutto il mio ti sei
impossessatocon l'usura.
Tibaldo.
Quali
erano i beni degli Acclozamòra?
Bertrando.
Incominciò tuo padre