Gabriele D'Annunzio

"La fiaccola sotto il moggio

DRAMATIS PERSONÆ

Tibaldo, Simonetto e Gigliola de Sangro. Bertrando Acclozamòra. Donna Aldegrina. La femmina di Luco Angizia Fura. Le due nutrici Annabella e Benedetta. Il serparo. I manovali.

Nel paese peligno, dentro dal tenitorio di Anversa, presso le gole del Sagittario, la vigilia della Pentecoste, al tempo del Re Borbone Ferdinando I.

CHORVS

ΔΡΑΣΑΝΤΙ ΠΑΘΕΙΝ

ΤΡΙΓΕΡΩΝ ΜΥΘΟΣ ΤΑΔΕ ΦΩΝΕΙ

ΕLECTRA

ΠΡΕΠΕΙ Δ'ΑΚΑΜΤΩ ΜΕΝΕΙ ΚΑΘΗΚΕΙΝ

ATTO PRIMO


Appare un'aula vastissima nella casa antica dei Sangro costrutta sul dosso ineguale del monte. Alla robustezza della primitiva ossatura normanna tutte le età han sovrapposto le loro testimonianze di pietra e di cotto, dal regno degli Angioini al regno dei Borboni. Ricorre all'intorno un ballatoio ricco di sculture, sopra arcate profonde; delle quali alcune sono tuttora aperte, altre sono richiuse, altre sono rette da puntelli. Delle tre in prospetto, la mediana prolunga la sua vôlta verso il giardino che splende, di da un cancello di ferro, con i suoi cipressi le sue statue i suoi vivai; la destra mette a una scala che ascende e si perde nell'ombra; la sinistra, ornata in ciascun fianco da un mausoleo, s'incurva su la porta della cappella gentilizia che a traverso i trafori di un rosone spande il chiarore delle sue lampade votive. A destra gli archi, più leggeri, sorretti da pilastri isolati, si aprono su una loggetta del Rinascimento a cui fa capo un ramo della scala che discende nella corte.

A sinistra, nel muramento d'un arco è praticata una piccola porta; e quivi presso, armadii e scaffali son carichi di rotoli e di filze. Cumuli di vecchie pergamene ingombrano anche il pavimento sconnesso, sopraccàricano una tavola massiccia intorno a cui son seggioloni e scranne. Busti illustri su alte mensole, grandi torcieri di ferro battuto, cassapanchescolpite, una portantina dipinta, alcuni frammenti marmorei compiscono la suppellèttile. Una fontana di gentile lavoro, dominata da una statuetta muliebre, alza nel mezzo dell'aula la sua conca vacua. E il tutto è vetusto, consunto, corroso, fenduto, coperto di polvere, condannato a perire.

SCENA PRIMA.

Donna Aldegrina è seduta presso la tavola, intenta a consultare le pergamene dell'archivio. Benedetta torce il fuso, Annabella gira l'arcolaio. Il sole pomeridiano entra dalla loggetta.

Donna Aldegrina.

Annabella, Annabella,

non senti come tremano le mura?

Che è mai questa romba?

La casa crolla?

Annabella.

È Probo di Gonnàri

che fuoco alla mina,

che rompe i massi con le mine al monte,

al Monte Picco delli Tre Confini

in Serra Grande.

Donna Aldegrina.

Dalle fondamenta

scote la casa. Ora me la dirocca!

Benedetta, non vedi che s'allarga

la fenditura, , nella travata?

E ancora non fu messa la catena!

Questo Mastro Domenico di Pace

dunque non viene mai?

Vuole la nostra morte?

Benedetta.

Lavora dalla parte delle logge,

o Signorìa, con vénti manovali,

a mettere puntelli e stanghe e sbarre;

e dice che gli tocca lavorare

anco stanotte al lume dette fiaccole;

ché quella parte è tutta

crepe e crepacci, e pende che a vederla

fa spavento. Il pietrame

si sgretola, si scioglie

in sabbia, come tufo; anco il mattone,

peggio che crudo fosse.

Annabella.

Questa mane

è rotolata già dalla sua nicchia

la Regina Giovanna; e il Re Roberto

tentenna, Signorìa.

Benedetta.

E l'aquila è caduta dal sepolcro

del vescovo Berardo.

Annabella.

Anco la fontanella di Gioietta

ammutolita s'è. La gromma intasa

tutto: le tre cannelle sono secche.

S'alza. Va a sollevare il disco di pietra nel pavimento. Prova a dar l'acqua.

Gira e volta la chiave nel chiusino,

l'acqua non passa più!

Lascia ricadere il disco. Guarda la fontana.

Una cannella sola

ancóra dà una gocciola ogni tanto.

Peccato! Ci teneva compagnia.

Benedetta.

Pericola il soffitto nella stanza

della contessa Loretella. E tutti

gli specchi torbi intorno si son rotti

(piano, fuso, che non si rompa il filo)

dove ci si vedeva nelle macchie

non so che cose del tempo che fu.

Annabella.

Ci si vedeva il viso

della contessa, e l'appannava il fiato

suo, come dietro il vetro

d'una finestra quando

s'aspetta che uno passi e gli occhi attenti

si velano alla pena del fiatare,

(piano, arcolaio, ché la matassa è scura)

e solo sta quel velo innanzi agli occhi,

e solo passa il tempo, e nulla più.

Benedetta.

Caduti sono i travicelli e gli émbrici

sul pavimento; e c'è piovuto: un croscio

d'acqua, un rovescio di gragnuola: ed ora

svolacchiano le rondini pel varco...

O Signorìa, che pensi?

Donna Aldegrina.

Dove sarà Gigliola?

È la vigilia della Pentecoste

oggi.

Annabella.

Oggi fa l'anno.

Benedetta.

Verso sera.

Annabella.

Non volle

detta la messa di requie stamani.

Vuol che si dica dopo Pentecosta.

Chi sa perché!

Donna Aldegrina.

Dove sarà Gigliola?

Benedetta.

Nel giardino sarà per la ghirlanda.

Annabella.

A cogliere i papaveri selvaggi?

Ma di quel rosso non si fa ghirlanda.

Men sùbito s'accaglia il sanguesparso

che quello non si guasti. O Signorìa,

tutto inselvatichito è il tuo giardino,

e tristo come il campo di nessuno.

Anche i pavoni l'hanno abbandonato.

Donna Aldegrina.

Dove sarà Gigliola, ed il suo cuore?

Annabella.

Va per la casa, per le cento stanze

va come ieri andò, come andrà sempre,

con quel suo cuore che tanto le pesa.

Tanto le pesa che s'è fatta curva.

E non ha pace, e non si stanca mai.

E va di porta in porta,

ecco apre un uscio, dietro a sé lo chiude,

sale una scala, scende un'altra scala,

piglia un andito, passa un corridore,

a una loggia s'affaccia,

attraversa una corte,

sparisce in un androne;

e risale e riscende e non ha pace

e cerca cerca cerca e mai non trova...

Ah, questa casa chi la fabbricò

tanto grande? e perché con tante porte?

A quanti mali ei volle dare albergo?

S'odono voci di fatica lontane e confuse. S'ode la cadenza che accompagna lo sforzo.

Benedetta.

I manovali vociano.

Donna Aldegrina.

Annabella, Annabella,

odi un rumore fondo?

Qualche cosa rovina

in qualche parte, laggiù... Corri, guarda.

Annabella.

No. Signorìa, non paventare. È il fiume

che mugghia, è il Sagittario che si gonfia

nelle gole. Si sciolgono le nevi

ai monti, alla Terrata, all'Argatone;

e il Sagittario sùbito s'infuria.

Mentre Annabella parla, l'ombra d'un uomo appare contro il cancello in fondo all'arcata di mezzo. Appare e dispare.

Benedetta.

L'uomo, l'uomo! L'ho visto

dietro il cancello, che spiava...

Donna Aldegrina.

Quale

uomo? Chi è?

Annabella corre al cancello e guata.

Benedetta.

Stava alla posta; e sùbito

s'è ritratto. È passato

per la muraglia rotta,

là, dietro la fontana

della Ginevra, certo. L'hai tu scorto,

Annabella?

Donna Aldegrina.

Ma quale

uomo?

Benedetta.

Da ieri sera

un uomo gira intorno

alla casa. È un serparo:

porta i sacchetti di pelle caprina

alle spalle, alla cintola; ha il suo flauto

di stinco per l'incanto, e su le mani

e sui polsi è marchiato

dal ferro della mula di Foligno.

Signorìa, non udisti

iersera quel richiamo

ch'ei faceva col flauto

ad ora ad ora sotto le finestre?

Annabella.

L'ho traveduto: s'è gettato a terra,

e sguiscia sotto i bòssoli, laggiù,

verso il Vivaio.

Donna Aldegrina.

E perchè viene? Ha fame

forse. Vuol far ballare le sue serpi

innanzi a noi. Ditelo a Simonetto,

che questo gioco almeno lo rallegri.

Benedetta.

Non per questo è venuto, Signorìa.

Ha già parlato, ha dimandato. Cerca

la femmina di Luco.

Donna Aldegrina.

Angizia?

Benedetta.

Vien dal Fùcino, dai boschi

dei Marsi.

Donna Aldegrina.

Ebbene?

Benedetta.

Dice ch'è parente.

È forse il padre. Certo, le somiglia.

Ha li stessi occhi.

Donna Aldegrina.

Ah figlio mio demente!

Annabella dalla loggetta.

Signorìa, Don Tibaldo è nella corte

col fratellastro. E Don Bertrando sembra

che s'adiri. Hanno diverbio tra loro.

SCENA SECONDA.

Gigliola discendendo la scala esce dall'ombra del voltone, vestita di gramaglia, in atto d'inseguire perdutamente qualcuno che le sfugga, pallida, anelante, con gli occhi allucinati. S'arresta e vacilla. Ha la voce rotta.

Gigliola.

Nonna, sei qui? sei tu?

Donna Aldegrina.

Gigliola!

Gigliola.

Sei

qui, nutrice, Annabella! Benedetta!

Donna Aldegrina.

Chehai? Dove correvi?

Annabella.

Perchè tremi?

Benedetta.

Chi t'ha fatto spavento?

Gigliola.

Nonna, nonna,

non l'hai veduta? Dimmi!

Donna Aldegrina.

Chi, cuor mio? Chi?

Gigliola.

Non era avanti a me?

Non è passata?

Donna Aldegrina.

Chi?

Annabella a bassa voce.

Non dimandare,

Signorìa. Tu lo sai. Non dimandare!

Guardale gli occhi.

Gigliola, subitamente dominando l'ambascia, mentre la visione le si spegne nelle ciglia.

Sono pazza. Questo

tu vuoi dire, nutrice?

Ho la pazzia negli occhi.

Me l'ha data in contagio

quella povera zia Giovanna, forse;

che lassù, che lassù nella prigione

urla, e nessuno l'ode.

Ancora un giorno, un giorno solo, e poi...

Nonna, domani è il dì di Pentecoste.

Questa notte è la festa

delle lingue di fuoco.

Se lo Spirito viene anche su me,

io che ho sempre taciuto, parlerò.

Si siede presso la fontanella.

Donna Aldegrina.

Non t'appenare. Non ti divorare

così l'anima tua.

Giovine sei. Pensa a una casa nova,

pensa al nido ove un giorno

tu ricomincerai la tua canzone

con la tua gola fresca.

Gigliola.

Oh, che dici? che dici? La parola

più crudele! L'orrore

su le labbra più care! Dove soffro

tu mi tocchi. E lo sai.

Non ho qui nella gola

anch'io la lividura

e il gonfiore e la piaga,

e la secchezza sempre?

Io non porto le stìmate di Cristo,

i segni della passione santa.

Ma le stìmate porto

di quella carne che mi generò.

E ne sanguino e brucio.

Non mi fu medicina il mio silenzio.

Oggi fa l'anno che mia madre cadde

nella tagliuola orrenda, tratta fu

all'insidia impensata, presa fu

dall'astuzia selvaggia

nell'ordegno di morte... Ah, ecco il giorno!

Oggi parlo, se il dubbio è verità.

Si solleva agitata.

Donna Aldegrina.

O Gigliola, mio cuore, tenerezza

e spina del cuor mio

desolato, o Gigliola,

o tu piccola, sempre,

pe' capelli miei bianchi,

non mi fare paura,

non m'affannare così! D'improvviso

divampi. Tutta m'appari affocata

dalla tua febbre nascosta, agitata

dal tuo sogno furente;

e la tua faccia si muta, e si muta

la tua voce; e più nulla

di quel che in te fu la grazia del primo

fiore e fu il pane mio dolce fra tanta

amarezza, più nulla

rimane. E più non so se tu sii quella

che appoggiava la gota a questi poveri

ginocchi ed ascoltava

senza batter le ciglia

la mia favola lunga.

Gigliola.

T'ho fatto pena. Che ho detto? Nulla.

Mi si svanisce il capo,

qualche volta, non so.

Tutto va, tutto passa.

L'ombra è là, e nessuno

deve guardarla. I giorni

sono eguali, e si vive.

È vero. Si può vivere

in pace, e avere gioia

da un fil d'erba che trema

sul davanzale al soffio

che viene non si sa

di dove, non si sa

di dove! Si può vivere

in pace e avere gioia

dalla piuma che cade,

dal volo d'una rondine...

Sì, mi ricordo. Vedo ogni mattina

Assunta della Teve

seduta su la sedia sua di paglia,

laggiù nel vano della sua finestra,

che cuce le lenzuola, ed è tranquilla;

e i giorni sono eguali;

ed ella s'alzaquando il padre torna;

e non si sente ella mancare il cuore

per pietà di quel povero sorriso

che l'uomo fa con le sue labbra smorte

quando gli passa nella schiena il freddo

della vergogna...

Donna Aldegrina.

Oh perchè, se sei dolce,

mi fai più pena? Hai gli occhi asciutti; e sembra

che ogni parola tua traversi un mare

di pianto, prima d'arrivare a me.

Sièditi.

Gigliola.

Sì. Ecco, mi siedo. Sono

in pace. Appoggerò la gota ai tuoi

ginocchi, come allora. Non si deve

soffrire. Cucirò

i teli, come Assunta della Teve,

seduta accanto alla finestra. E quando

verrà mio padre, non lo guarderò,

perché non faccia quel sorriso. E quando

verrà la moglie di mio padre, allora

m'alzerò come innanzi alla padrona

mia legittima. O nonna,

sì, lo so: per ciascuno

viene la volta del servire. Quella

spazzava tra due porte, con le braccia

nude e la gonna rialzata ai fianchi,

e il vento del riscontro

le sollevava intorno l'immondezza

e glie la rigettava contro il viso...

Mi ricordo. La vedo.

Donna Aldegrina.

Ora il tuo capo pesa come il bronzo;

ch'era così leggero!

Gigliola.

Pesa? Dimmi: perché

mille pensieri insieme

non hanno il peso d'un pensiero solo,

quando è solo? Io lo scuoto, e me ne libero.

Si può vivere in pace.

Che cosa mai accade? Nulla. I giorni

sono eguali, e si vive.

Il mio fratello è ancóra nel suo letto

con la fronte voltata verso il muro.

È sempre stanco, e pieno di terrore.

Ma vive. Ascolta i passi

che fa la zia Giovanna

nella stanza di sopra,

rinchiusa a doppia chiave;

i passi e i balzi e i gridi sordi conta,

ch'ella fa per sfuggire

a quello sconosciuto

ch'è rinchiuso con lei,

a quell'essere enorme

e beffardo ch'è nato

a poco a poco dalla malattia,

che s'è nutrito e ha fatto l'ossa ed ora

è il compagno e il nemico,

il custode e il padrone;

che ha più carne di lei,

che ha più soffio di lei,

che la guarda, le parla,

le s'accosta, la tocca,

le rifiata vicino

intollerabilmente,

visibile e palpabile

per lei sola...

Donna Aldegrina.

No, no!

Taci.

Ella pone le sue mani scarne su la bocca di Gigliola.

Sei devastata,

sei disperata fino a dentro, sei

bruciata fino alta radice. Tutto

quel che è misero e offeso

e rotto e agonizzante

parla per la tua bocca. Sei la voce

della nostra ruina,

di tutte le ruine senza scampo.

O mia povera povera

povera creatura,

piccola anima mia,

per me piccola sempre,

chi ti consolerà?

chi t'inumidirà un'altra volta

queste pàlpebre secche? Ahimè! Ahimè!

Una pietra, una terra calcinata,

una stoppia riarsa.

E che farò per te io vecchia e lógora?

Chi mai chi mai farà per te nel mondo

alcuna cosa, o piccola mia sola?

Gigliola.

Io, io farò. Fare bisogna, fare

bisogna. Alzarmi debbo,

restar diritta in piedi fino all'ora

di coricarmi. Baciami la fronte.

Mi bacerai a sera un'altra volta.

Così. M'alzo. Il coraggio non vacilla.

Stanottei manovali

lavoreranno al lume delle fiaccole.

Non lo sai? Tutta notte.

Anch'io anch'io laggiù, in qualche parte,

ho una fiaccola rossa

nascosta sotto il moggio,

sotto un moggio vecchissimo nascosta

che non misura più perché non tiene

più né grano né orzo.

Entro i cerchi di ferro rugginoso

ha le doghe sconnesse.

Quella terrò nel pugno, a rischiarare

il travaglio notturno

intorno alla ruina.

E se la casa crolla

io sono certa che una sepoltura

resterà ferma e immune.

Lo prometto.

Donna Aldegrina.

Gigliola, dove vai?

Gigliola.

A promettere.

Entra sotto l'arcata dei mausolei: sparisce per la porta della cappella.

Donna Aldegrina.

Séguila, Annabella.

Séguila in ogni passo.

Non la lasciare mai.

Ho paura, ho paura.

Annabella.

Signorìa, non m'attento.

Vuol sempre stare sola quando scende

alla Cappella e s'inginocchia

a quella sepoltura.

Posso mettermi là, dietro la porta.

Donna Aldegrina.

Non la lasciare. Va. Tu, Benedetta,

guarda chi è su per la scala bassa.

Benedetta, origliando.

È la voce di Don Bertrando. Sale

col fratellastro. Sento anche la voce

di Don Tibaldo.

Donna Aldegrina.

Si sarà levato

Simonetto? Che ora

è?

Benedetta.

Quasi ventun'ora, Signorìa.

Donna Aldegrina.

Va, va di sopra. Guarda

se dorme ancóra. Non lo risvegliare

se dorme. Ma se è sveglio

fa che si levi, e prenda

la medicina.

Benedetta.

Signorìa, non vuole

la sorella che prenda medicina

se non glie la prepara

con le sue mani.

Donna Aldegrina.

Perché?

Benedetta.

Io non so.

Ha il suo pensiero.

Donna Aldegrina.

Salgo anch'io fra poco.

Annabella! Annabella!

La vecchia scompare sotto l'arcata chiamando sommessamente la nutrice. Con lei entra nella cappella. Benedetta si avvia su per la scala, sospirando.

SCENA TERZA.

Entrano, per la scala che dà su la loggetta, sotto l'armatura di travi e di corde, Tibaldo de Sangro e Bertrando Acclozamòra, i fratellastri.

Bertrando.

Dunque rifiuti? È l'ultima parola?

Tibaldo.

Non ho manco un tornese!

Non so come farò

a pagar la giornata

dei manovali. E se non pago, Mastro

Domenico di Pace

lascia che tutto vada a precipizio:

leva i puntelli. Intendi?

Bertrando.

Tu mentisci.

Tibaldo.

Vedi: mia madre fruga

tutte le cartapecore

degli scaffali, mette sottosopra

l'archivio, lo riscontra a filza a filza,

ci si logora gli occhi...

Ah, se si ritrovasse l'istrumento

di quel vincolo fidecommissario,

nella lite che abbiamo coi Mormile!

Bertrando.

Non divagare. Ti domando ancóra

una volta: mi dài quella miseria?

Tibaldo.

Ma se ti dico che non ho un tornese!

Credimi.

Bertrando.

Tu mentisci.

Non riscotesti ieri

da Crescenzo Castoldo

centoventi ducati di caparra

pel grano che gli devi consegnare

dopo la mietitura?

Tibaldo.

Non è vero.

Bertrando.

Hai coraggio di negarlo!

Bene ti s'è indurato

il sangue su cotesto viso giallo,

come la sugna ràncida

nella vescica risecchita.

Tibaldo.

Ancóra

cerchi di sopraffarmi con l'ingiuria.

È il raccolto del campo di Malvese,

ch'è di mio figlio, dell'eredità

di sua madre.

Bertrando.

Ma il frutto è tuo.

Tibaldo.

Non posso

toccarlo.

Bertrando.

Tu! tu che conficchi ovunque

le tue granfie ed hai solo

lo scrupolo del tarlo

che ha roso il Cristo e non voleva rodere

il chiodo! Razza dei Sangro.

Tibaldo.

Ma chi,

ma chi è che mi succhia,

chi è che mi dissangua da vent'anni

senza tregua?

Bertrando.

Di tutto il mio ti sei

impossessatocon l'usura.

Tibaldo.

Quali

erano i beni degli Acclozamòra?

Bertrando.

Incominciò tuo padre

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