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affidategli se non personalmente al professor Grolli. C'era un altro partito. Non darsi nemmeno per inteso del foglio ricevuto e continuare a svolgere l'elegante formula x sen ysen α.
No, no, quest'era impossibile. Il professor Grolli, quantunque avesse testa di matematico e abitudini di misantropo, non era poi un pezzo di marmo; egli sentiva che il capitano non gli aveva scritto senza una grave ragione, e che non era lecito di considerare la sua lettera come il capriccio del primo venuto. Che fare adunque? Prender la ferrovia, e quanto più presto tanto meglio. Il professore aperse un orario ch'egli aveva sul suo tavolino, e vide che a voler partire in giornata per Genova non ci eratempo da perdere. Pose sospirando un calcafogli sopra il manoscritto, buttò giù in fretta due righe pel rettore dell'Università, diede a traverso lo spiraglio dell'uscio un'occhiata al suo piccolo laboratorio per vedere se i fornelli erano spenti, poi aperse un tiretto del suo cassettone, ne tolse una camicia da notte che collocò in una sacchetta da viaggio, infilò un soprabito color pepe e sale, calcò sulla testa un berretto di panno nero con visiera di cuoio, prese sotto il braccio l'ombrello, e in questo elegantissimo arnese si presentò all'attonita signora Dorotea.
- Parte, professore? - disse la buona donna, ch'era occupata a lavorar di calze.
- Sì... Faccia il piacere di mandare qualcheduno all'Università con questo biglietto.
- E... tornerà presto?
- Domani, posdomani, di qui a due o tre giorni, non lo so di preciso.
- E... scusi - continuò la signora Salsiccini sempre più impensierita - ha preso con sè l'occorrente, calze, polsini, colletti?
- Sì, sì, ho preso tutto... basta.
A vero dire, il professore non aveva preso altro che una camicia da notte, ma rispose di sì per levarsi d'impiccio. Del resto, egli non aveva mai brillato per una cura eccessiva della persona.
- Un momento - soggiunse la signora Dorotea, vedendo che egli si avviava verso l'uscio. Si alzò dalla sedia, e staccata da un chiodo una spazzola, se ne servì per ripulirgli il soprabito. - Via, stia cheto un minuto... Come vuol andar così?... Non c'è altri al mondo per sciupar la roba in questa maniera...
Mentre la padrona di casa si affaccendava intorno al recalcitrante
scienziato, i due gatti Mao e Meo, inseparabili compagni di lei, che dormivano rinvolti a spira ai due angoli di un canapè, si rizzarono sulle quattro zampe, arcuarono la schiena a foggia di cammelli, apersero la bocca ad un lungo sbadiglio, poi scesero dalla loro posizione eminente e vennero a fregarsi intorno al vestito della signora Dorotea.
Questo atto amorevole dei due quadrupedi fece perdere al professore la poca pazienza che gli era rimasta.
- Sempre le bestie fra i piedi - egli disse con un grugnito, e, svincolatosi dalla signora Salsiccini, lasciò la stanza e scese in fretta le scale.
La signora Dorotea, rimasta sola, guardò prima Mao e poi Meo, e dopo aver lisciato il pelo ad entrambi: - C'è del torbido - brontolò - c'è del torbido. - Mao e Meonon seppero contraddire alle sue previsioni e ripigliarono in silenzio il loro posto sul canapè.
Gli avvenimenti non tardarono a provare che la signora Dorotea si apponeva al vero.
Erano scorsi due giorni dalla partenza del dottor Grolli, e l'ottima signora, discesaal pianterreno nel camerino della portinaja, comunicava a costei le sue inquietudini circa al proprio pigionale. Ella aveva finito appena di tessere l'elogio del dottor Romualdo, il quale, astraendo dalla sua misantropia, era un modello di puntualità e di discretezza, quando un fattorino del telegrafo si presentò sulla soglia e chiese - In che piano abita la signora Dorotea Salsiccini?
La signora Dorotea, a sentir così inaspettatamente pronunciato il suo nome, divenne prima bianca e poi rossa, ed ebbe appena la forza di balbettare: - Sono io... ma...
- C'è un dispaccio per Lei. Favorisca farmi la ricevuta.
- Un dispaccio!... Ma io...
- Dorotea Salsiccini, casa Negrelli, è Lei, o non è Lei?
- Ih! un po' di pazienza - disse la portinaja, accorrendo in aiuto della pacifica pigionale del quarto piano. - Dacchè s'è fatta quella maledetta invenzione delle lettere che corrono lungo i fili di ferro, non c'è più pace per nessuno a questo mondo... e pei portinai meno che per gli altri... Di giorno, di notte, drlin, drlin, chi è?... Il telegrafo...
- Insomma, non ho tempo da perdere - interruppe il fattorino. - Se non vogliono il dispaccio, lo riporto in ufficio e me ne lavo le mani.
La signora Dorotea consultò con lo sguardo la signora Gertrude, e, incoraggiata da questa, prese il piego misterioso e consentì a fare col lapis, a piedi della ricevuta, uno sgorbio che doveva essere la sua firma.
Il fattorino corse via rapido come una saetta, e la signora Salsiccini col dispaccio chiuso in mano si abbandonò sopra una sedia, e pregò la portinaja di darle subito un bicchier d'acqua.
- Cara signora Gertrude... mi perdoni... ma non so proprio quello ch'io m'abbia... Sarà una sciocchezza, ma mi fa un certo senso... Io di questa roba non ne ho mai ricevuta.
- Si faccia animo, non sarà nulla...
- Domando io chi può telegrafare a me!... A me, che non m'impiccio degli affari degli altri, a me che non faccio male a nessuno?
E intanto la signora Dorotea girava e rigirava il dispaccio nelle mani senza osare di aprirlo.
La portinaja ebbe un'idea giudiziosa. - Se lo aprisse, vedrebbe...
- Dopo, quando sarò risalita... Non ho meco nemmeno gli occhiali...
- Per questo, cara signora Dorotea, non si confonda... Forse potrà accomodarsi coi miei... In ogni modo, se crede... io m'ingegno a leggere... e potrei... Dico così... non certo per curiosità... ma, in questi momenti... è forse meglio che ci sia una amica... Di me si fida, non è vero?
- Le pare?
- Sa ch'io non sono donna da farchiacchiere...
Quest'affermazione non era esattissima; tuttavia la signora Dorotea consentì di buon grado a lasciar aprire il dispaccio alla portinaja. Costei ruppe audacemente la sopraccarta, e guardando la firma lesse: Grolli.
- Il professore!
- Sicuro...
- Che gli sia accaduta una disgrazia?
- Or ora vedremo - continuò la signora Gertrude, e con qualche difficoltà decifrò l'intero tenore del telegramma:
"Dorotea Salsiccini, casa Negrelli. - Arrivo stasera corsa otto e mezzo. Pregola preparare minestrina in brodo e letto nel camerino attiguo alla mia stanza per bimba di quattro anni."
- Bimba di quattro anni! - sclamò esterrefatta la signora Dorotea - Dice
bimba?
- Già... bimba.
- Ah, signora Gertrude... io ritengo prossimo il finimondo...
Esposta questa opinione radicale, la signora Salsiccini volle esaminare il dispaccio coi propri occhi aiutati dagli occhiali della portinaja. Non c'era dubbio. Il professore arrivava con una fanciulla! Egli che aveva un sacro orrore delle donne e dei bambini! E chi era costei? E per quanto tempo veniva in casa?
- Il professore ha fratelli, sorelle? - domandò la signora Gertrude.
- Ma no, ma no... nessuno... ch'io sappia... In tanti anni dacchè è qui, non ho visto nelle sue camere che qualche studente... E poi... è vero che parla poco, ma pure, diamine, se avesse parenti stretti, una volta o l'altra li avrebbe nominati... Creda, signora Gertrude, sarebbe da dar la testa nei muri....
Se un così disperato proposito fosse stato espresso sul serio, il sospetto che la signora Gertrude era sul punto di manifestare non avrebbe potuto a meno di affrettarne l'adempimento.
- E se fosse una figlia tenuta finora nascosta?
La signora Dorotea scattò come una molla. - Sua figlia! Figlia del professore! Di un uomo che in fatto di femmine è un San Luigi...! Signora Gertrude, che cosa dice?
- Eh, cara signora Salsiccini - replicò la portinaja battendole sulla spalla - fidarsi è bene e non fidarsi è meglio. In tempi nei quali in una sola estrazione del lotto si levano quattro numeri in fila, 66, 67, 68, 69, non c'è da stupirsi di nulla.
- Questo è vero - osservò la signora Dorotea, colpita da una così profonda riflessione. Però ella non poteva acconciarsi all'ipotesi della sua interlocutrice e riprese: - No, no... è impossibile... Quando? Come? Con chi?
La portinaja aveva in serbo un'altra considerazione non meno profonda della prima. - Signora Dorotea, non si può credere come presto facciano gli uomini ad avere una figlia.
Era evidente che la fede della signora Salsiccini era scossa. La signora Gertrude ne approfittò per continuare. - Non c'è timor di Dio, e anche il professorecon le sue storte e i suoi fornelli è più del diavolo che di Cristo... Questa è la causa di tutto, cara signora Dorotea, non c'è
religione... Libera nos, Domine, a morte aeterna - ella concluse, facendosi il segno della croce.
- Amen! - disse la signora Dorotea. Poi soggiunse: - Figlia o no, col signor professore ce la intenderemo... Io ho appigionato le stanze a lui, e non voglio marmocchi... Ci mancherebbe altro.
- Troppo giusto - assentì la portinaja.
- Dunque la cosa resta fra noi - ripetè la signora Dorotea, quando, un po' rinfrancata, s'indusse a risalire le scale.
- S'immagini... Io non parlo sicuro.
Se la signora Gertrude parlasse, non si sa; fatto si è che la notizia della fanciulla d'ignota provenienza, la quale doveva arrivare la sera stessa col professor Grolli, si diffuse prestissimo fra gli inquilini della casa.
Quantunque non siasi finora accennato nemmeno di lontano all'età del dottor Romualdo, scommetterei che il lettore rimarrà di sasso sentendo che il nostro matematico e chimico non aveva, nel momento in cui comincia questa storia, che ventitrè anni. Eppure era tanto vero che egli aveva solo ventitrè anni, quanto era vero che ne mostrava poco meno di quaranta. Nulla di giovanile nel suo aspetto. Rughe precoci solcavano la sua fronte alta e spaziosa; l'incolta capigliatura e l'ispida barba erano già punteggiate di bianco; agli occhi profondi, ch'erano forse l'unica sua bellezza, mancava la fiamma; a ogni modo, essi erano quasi sempre mezzo nascosti dagli occhiali. Sorrideva di rado; di statura appena mezzana, camminava un po' curvo con le mani intrecciate dietro la schiena sotto le falde del soprabito; vestiva negletto, schivava la società e divideva la giornata fra la scuola, i suoi libri di matematica e il suo laboratorio chimico. Nessuno l'aveva mai visto a un teatro, a un pubblico ritrovo, a fianco d'una signora. Tenersi lontano dalle donne era norma immutabile della sua condotta; nè in ciò metteva affettazione, nè ostentava la sua ripugnanza come sogliono quelli che furono vittime di qualche gran disinganno. Se era proprio costretto a parlarne, diceva che, a parer suo, la donna era un imbarazzo nella vita dello studioso, e soggiungeva ingenuamente che quanto a lui non ne aveva mai sentito il bisogno. Forse era la consapevolezza della sua inferiorità fisica, della sua goffaggine, che lo rendeva così avverso al bel sesso. Noi non amiamo le
cose nelle quali siamo convinti di non poter riuscire.
Del resto, al dottore Romualdo bastava la scienza. Nel 1859, quando tutta la gioventù era corsa alle armi, egli era rimasto nel suo gabinetto a studiare; il rimbombo del cannone nonlo aveva commosso. Il giorno dell'ingresso delle truppe liberatrici, s'era mescolato alla folla, aveva istintivamente agitato il cappello e gridato viva anche lui; ma, al più presto possibile, s'era ridotto nelle sue stanze, e per esilararsi un poco aveva fatto alcune esperienze col gas idrogeno. L'alloggio da lui scelto si confaceva alla sua misantropia. Era una casa di quattro piani, fuori d'una porta della città, guardante da un lato la strada maestra, dagli altri tre lati la campagna. La chiamavano, dal nome del proprietario, casa Negrelli, ed era tutta abitata da gente tranquilla. Solo sul davanti c'era un po' di rumore per effetto della strada, della vicinanza della porta, e del negozio di granaglie e coloniali che occupava due locali terreni del fabbricato. Questo negozio, appartenente al signor Gedeone Albani, andava lieto di una numerosa clientela, così rustica come cittadina. Infatti parecchie buone massaje mandavano a comprar le derrate dal signor Gedeone, il quale, trovandosi col suo deposito fuori della cinta daziaria, poteva usare notevoli agevolezze nei prezzi. La prosperità degli affari del signor Albani si vedeva riflessa nella sua faccia piena e rubiconda e nel suo umore scherzevole. Le guardie del dazio consumo venivano spesso a bere un bicchierino da lui, e, grate alla sua cortesia, non badavano tanto pel sottile se la sera, nel rientrare in città dopo aver chiuso il negozio, egli portava seco qualche pane di zucchero o qualche pacco di candele steariche.
In quanto al nostro valentuomo, egli conosceva appena l'esistenza del signor Albani. Le finestre delle sue stanze davano sulla parte opposta alla strada; non gli giungeva all'orecchio altro suono che la voce dei bifolchi conducenti l'aratro, la canzone malinconica di qualche villana intenta alle cure dell'orto, il muggito dei bovi sparsi per la campagna; e, di notte, quand'egli vegliava sui libri, il gracidar delle rane e il latrar dei cani da pagliaio.
Il quartierino della signora Dorotea era composto di un andito, una cucina, quattro stanze grandi e tre gabinetti. L'andito rettangolare aveva un uscio di fronte alla porta d'ingresso, e altri due usci, uno per parte. A destra di chi entrava c'era la cucina, e dopo la cucina un bugigattolo per la donna di servizio; a sinistra una stanza detta pomposamente salotto da ricevere, e sulla stessa linea un camerino di sbarazzo. Tutti questi
locali avevano le loro finestre sul ballatojo che girava intorno al cortile. L'andito solo riceveva luce dalla portiera a vetri del salotto da pranzo, il quale metteva, a destra, alla camera da letto della signora Dorotea, a sinistra, a quella del dottore Romualdo. Un gabinetto annesso a quest'ultima camera e comunicante, mercè una porticina, col luogo di sbarazzo,avrebbe dovuto servire di studio, ma in realtà il Grolli studiava nella camera da letto. Lo stanzino egli lo aveva ridotto a sue spese a uso di laboratorio chimico. Le camere della signora Dorotea e del professore, il salotto da pranzo e il laboratorio guardavano sulla campagna e avevano aria e luce in quantità.
Il professore Romualdo alloggiava in casa della vedova Salsiccini fin da quando aveva ottenuto il posto di assistente, vale a dire da circa tre anni. Nè vi alloggiava soltanto, ma aveva indotto la vedova ad assumersi anche la cura del suo mantenimento verso un modesto correspettivo. Un caffè e latte la mattina, un parco desinare al tocco, un pezzo di formaggio e un dito di vino la sera; il professore non esigeva di più. In tutto, fra alloggio e vitto, egli non ispendeva che centoventi lire al mese, una vera miseria. Così, a malgrado di quello ch'egli doveva aggiungere per vestirsi, per comperar qualche libro, per rifornir di storte e di lambicchi il suo laboratorio, gli riusciva ancora di far piccoli risparmi sul non lauto stipendio di assistente, e di avere un migliaio e mezzo di franchi raccolti presso una Banca del paese. Lo dicevano avaro, ma in realtà non era; la sua economia dipendeva dalla mancanza assoluta di bisogni. All'occorrenza sapeva fare perfino le sue spese di lusso, e non era altro che un lusso il suo laboratorio, poichè egli avrebbe potuto benissimo levarsi all'Università il capriccio delle esperienze chimiche.
Nonostante la sua misantropia, il Grolli non era mal visto dalla gioventù. In primo luogo si doveva stimarlo pel suo valore scientifico. Il professore di cui egli era assistente godeva una fama europea, ma, attempato e malaticcio come era, non veniva mai alla scuola. Ebbene; la riputazione della Facoltà matematica dell'Università non aveva punto sofferto dacchè il Grolli saliva ogni giorno la cattedra resa già illustre dal titolare. Altro pregio universalmente riconosciuto del dottor Romualdo era la sua scrupolosa equità; onde gli studenti dicevano: - Meglio la ruvidezza del professor Grolli che la melliflua condiscendenza di tanti altri. Almeno il professor Grolli non ha predilezioni.
Inoltre tutti sapevano che la sua adolescenza era stata piena di amarezze, che, rimasto a quindici anni orfano e senz'appoggio, aveva
bastato a sè stesso dando ripetizione ai suoi condiscepoli, e che s'egli era riuscito a conseguir giovanissimo un posto onorevole nonostante la sua indole poco flessibile e la mancanza di tutte le doti esteriori, egli non lo dovea a nessun patrocinio illustre, ma soltanto al suo merito e alla sua perseveranza. Com'egli aveva studiato, come studiava sempre! Studiava al tavolino, studiava camminando, certo studiava anche dormendo. Le allegrebrigate degli scolari lo incontravano talvolta sui bastioni, ed egli appena si accorgeva di loro, tanto era assorto nei suoi pensieri. - Zitto! - bisbigliava un bello spirito all'orecchio dei compagni - il professore Grolli è con la sua amante. - La sua amante! - esclamava un ingenuo matricolino, aprendo tanto d'orecchi. - Già, la sua amante, la matematica. - E tutti a ridere e a dirsi - In fatto d'amanti, valgon meglio le nostre. - No, no - ripigliava misteriosamente qualche cattivo soggetto. - La vera amante del professore la conosco io. - Un'amante in carne ed ossa? - Sicuro. Finirà collo sposarla. La sua padrona di casa. - E nuovi scrosci di risa sgangherate tenevano dietro alla insulsa facezia.
La signora Dorotea, come si vede, era conosciuta dalla scolaresca. Chi si recava dal professor Grolli la trovava spesso in salotto seduta davanti al tavolino con la calza in mano e gli occhiali sul naso, e doveva assoggettarsi da parte di lei ad un succoso interrogatorio, modellato sempre sul medesimo stampo.
- Di chi domanda?
- Del professor Grolli.
- È uno studente?
- Sissignore.
- Vada pure avanti.
Non passava poi giorno che la signora Salsiccini non comparisse a due o tre riprese nelle strade della città; la mattina per la spesa, il dopopranzo per le visite, senza contar le volte ch'ella andava a desinare da qualche famiglia amica. A malgrado de' suoi cinquantacinque anni, ella camminava svelta e spedita, dimenando alquanto i fianchi e rassettandosi di tratto in tratto la mantellina che le scivolava giù ora da una spalla, ora dall'altra. Portava per solito un vestito bigio di lana e un cappello di paglia scura con tese sporgenti, con due barbine di fioretti artificiali, e con un velo celeste sul davanti, sotto al quale la buona vedova passava frequentemente il fazzoletto per soffiarsi il naso con gran romore.
- Ecco la trombetta dei bersaglieri - esclamò una mattina uno studente di prim'anno, sentendo quel suono e vedendo quel passo marziale.
- Questi studenti - disse la signora Dorotea - si prendono libertà anche con le femmine più contegnose.
Del resto, la signora Salsiccini, quantunque fosse un po' pettegola, quantunque avesse la passione del lotto, era una eccellente pasta di donna. Pel professore aveva cure materne, ed ella lo avrebbe giudicato un uomo perfetto se fosse stato più espansivo con lei e le avesse concesso di metter lingua nelle sue faccende. Nondimeno ella lo aveva sempre difeso e aveva sempre levato a cielo l'illibatezza de' suoi costumi. Guai a lui s'egli le faceva far cattiva figura, guai a lui se tantoapparato di virtù veniva a risolversi in una figliuola clandestina!
Era già tramontato il sole quando il treno che conduceva il dottor Romualdo giunse alla stazione di Genova. Il nostro amico, la cui inquietudine era andata crescendo di mano in mano ch'egli si avvicinava al termine del suo viaggio, salì nel primo omnibus che gli si parò dinnanzi, e si lasciò condurre ad un albergo di aspetto signorile, ove ebbe la soddisfazione di esser preso pel servitore di una famiglia inglese arrivata insieme con lui. Tolto l'equivoco, egli venne affidato alle cure di un cameriere d'infima categoria, il quale, dopo avere acceso una candela, lo accompagnò in una stanzuccia del quinto piano. Lo scarso bagaglio e il vestito dimesso del viaggiatore non meritavano maggiori riguardi. Era già molto ch'egli pagasse il conto. Il cameriere, tanto per iscarico di coscienza, gli chiese s'egli avesse bisogno di nulla, e senz'aspettar risposta, lasciò la stanza tirando sgarbatamente l'uscio dietro a sè. Ma il professore non se n'accorse nemmeno, assorto com'era in un solo pensiero: cercar subito del capitano Rodomiti.
Onde, risciacquatosi alquanto per liberarsi dal caldo e dalla polvere, scese le scale, e domandò subito la via per giungere in piazza Banchi. Non gli fu difficile arrivarci, ma dovette convincersi che per quella sera bisognava rinunciare all'abboccamento col capitano. Perchè l'ufficio dei signori Radice e Lupini, shipbrokers, era chiuso, e non si sarebbe riaperto fino alla mattina successiva. Il professore girò un poco a caso; poi, facendo di necessità virtù, ritornò all'albergo, ove si risovvenne che non aveva ancora desinato e mangiò un boccone in fretta e senza appetito.
Quando si ridusse nella sua cameruccia al quinto piano, erano circa le dieci. Il dottor Romualdo spalancò la finestra e s'accorse che la sua soffitta aveva il pregio inestimabile di dominare il magnifico porto di Genova. Qua e là lungo la costa brillavano, mutando di tratto in tratto colore, i fanali dei fari lontani; più presso, la colossale lanterna disegnava sull'orizzonte la sua mole maestosa, come un bruno fantasma cinto il capo di luce spettrale; dalle oscure masse dei bruni navigli si levava al cielo una selva d'alberi; il silenzio dell'ora era rotto dal gemito del vento che investiva le sartie e dal suono dell'onda che veniva a frangersi sulle carene. Dai mari del tropico e dai mari del polo, ora cullati sulle acque tranquille, ora sbattuti dal flutto minaccioso, ora protetti dal più bel padiglione d'azzurro, ora avviluppati fra nuvole dense di pioggia e gravi di fulmini, attraverso bonacce, attraverso tempeste, lottando, soffrendo, quei mille e mille navigli erano convenuti allo stesso punto, e ora riposavano uno a fianco dell'altro dalle lunghe fatiche,salvo a dividersi presto per non incontrarsi forse mai più. Ma fra tanti legni quale era la Lisa? Gli occhi del professore cercavano invano d'indovinarlo, mentre il cuore con battito affrettato gli diceva che l'arrivo di quel bastimento, di cui ventiquattro ore prima egli ignorava perfino il nome, non doveva rimanere senza influenza sui suoi destini.
Il nostro Romualdo dormì poche ore di un sonno interrotto. Al primo albeggiare calò impaziente dal letto, e si appoggiò di nuovo al davanzale della finestra. Una nebbietta sottile si stendeva sul mare e cingeva d'un tenue velo i legni ancorati nel porto; sotto, nella via buia, principiavano a muoversi delle ombre, a levarsi dei suoni; la città più operosa d'Italia si svegliava rapidamente. A poco a poco cresceva il moto e lo strepito; il fischio acuto della locomotiva fendeva l'aria; sui ciottoli della via si sentiva il rumore sussultorio dei carri pesanti e lo scalpitar delle zampe ferrate dei cavalli e dei muli; i ragli e i nitriti si mescevano al vociar dei facchini. Indi il sole, alzandosi sull'orizzonte, pennelleggiava d'una bella tinta di arancio le nuvolette sparse pel cielo; s'indoravano al caldo raggio le punte delle antenne dei bastimenti, spiccavano i colori delle allegre bandiere sventolanti da poppa, l'onda palpitante di voluttà si colorava di sprazzi argentini; sgombre dal grigio vapore che le avvolgeva si disegnavano con netti contorni le cupole delle chiese e le guglie dei campanili, e le case, e le villette disseminate sui colli, finchè i fasci luminosi invadevano anche le strade più anguste portando dappertutto il movimento e la vita baldanzosa della giornata che comincia.
Prima delle sette, il professore era già fuori dell'albergo e passeggiava su e giù per la piazza Banchi aspettando che l'ufficio dei signori Radice e Lupini si aprisse. Lo aspettava con impazienza, e nondimeno, quando vide le imposte spalancate, e un signore dalla faccia rubiconda(certo il signor Radice o il signor Lupini) dondolantesi sulle punte dei piedi nel vano della porta, coi due pollici nelle tasche del panciotto, col sigaro in bocca e col cappello in testa, dovette fare altri tre o quattro giri prima di trovare il coraggio necessario per presentarsi. Intanto alcuni individui, che al vestito parevano gente di mare, vennero a scambiar poche parole col mediatore. Poi si lasciarono con una stretta di mano, e il signor Radice, o Lupini che fosse, gettò via il sigaro, aperse la bocca a un lungo sbadiglio, stirò le braccia ed entrò nel suo banco. Il dottore Romualdo, pensando che fra coloro i quali si allontanavano poteva esservi anche il capitano Rodomiti e che con la sua esitanza egli aveva forse perduto l'opportunitàdi veder subito il misterioso personaggio, ruppe finalmente gli indugi, e affacciatosi all'uscio con la mano al berretto: - Di grazia - chiese - c'è qui il capitano Antonio Rodomiti?
Il signor Radice(o Lupini), vista l'esotica figura del professore, ne fu esilarato, e, da quell'uomo faceto ch'egli era, prima di rispondere, guardò sotto alle sedie, sotto ai banchi e perfino dietro le imposte di un piccolo armadio infisso nella parete; poi disse con una risatina; - Non lo vedo.
Sconcertato un po' da questo strano accoglimento, il Grolli ripensò con desiderio alla sua cattedra, al suo laboratorio chimico e alla graziosa formola x sen ysen α; tuttavia rinnovò la domanda con altre parole: - Ma non viene qui il capitano Rodomiti?
- Sicuro che viene, ma adesso non c'è.
- E... scusi... a che ora posso...?
Il professor Grolli non aveva finito la frase quando il signor Radice(o Lupini) scoppiò in una risata sonora. Gli è che l'ottimo sensale di noleggi coglieva finalmente il frutto della sua facezia di pochi minuti prima. Poichè sulla soglia dell'ufficio, dietro la personcina esile e smilza del professore, era comparso un colosso alto quasi due metri e grosso in proporzione, e questo colosso era precisamente il capitano Rodomiti che il signor Radice(o Lupini) aveva fatto le viste di cercare perfino negli scaffali d'un armadio.
- Con permesso - disse il capitano, il quale a cagione della sua mole ciclopica non poteva entrare finchè il professore non gli cedesse il posto.
Costui sentì a trenta centimetri sopra il suo capo la voce tonante del nuovo arrivato, si voltò, guardò in su, e vide in mezzo a una nuvola di fumo che usciva dal caminetto di una pipa, una bella testa caratteristica con la carnagione abbronzita, la barba folta, gli occhi azzurri e profondi e una cicatrice a sinistra della bocca.
- Con permesso - ripetè il capitano, e il dottor Romualdo si tirò da parte più confuso che mai, mentre il signor Radice(o Lupini) rivoltosi al colosso gli disse: - Capitano, quel signore domanda di voi.
Il capitano Rodomiti squadrò d'alto in basso il signore piccino, si tolse la pipa di bocca, mandò fuori un buffo di fumo e chiese: - È lei il professore Romualdo Grolli?
- Appunto, sono io - rispose il professore, alzando gli occhi in su come se guardasse un campanile.
- Lietissimo di far la sua conoscenza... Se non Le dispiace, potremo andare in luogo tranquillo... a pochi passi di qui... A rivederci allora - continuò il capitano, salutando con la mano il sensale di noleggi senza pronunziarne il nome, e lasciandocosì sospesa la grave questione se il personaggio faceto fosse il signor Radice o il signor Lupini. - Eccomi con lei - egli riprese quindi, abbassando lo sguardo sul Grolli.
E i due uomini uscirono insieme sulla strada. Il professore, che durava non poca fatica a misurare il suo passo su quello del capitano, gli veniva a fianco senza parlare nella speranza che l'altro iniziasse il discorso. Dal canto suo il Rodomiti avrebbe preferito di essere interrogato; onde tacevano tutti e due, e tacendo si esaminavano a vicenda. Una grande disparità fisica non suol generare a prima vista una grande simpatia reciproca fra due individui. E fra il Rodomiti e il Grolli la disparità non poteva esser maggiore. Il primo, come si disse or ora, era veramente un bell'uomo, dalla fisonomia aperta e leale, ma il dottor Romualdo lo considerava dal punto di vista onde gli uomini troppo piccoli considerano gli uomini troppo grandi, e non poteva guardare senza una certa diffidenza quella figura torreggiante, quelle membra atletiche, il cui solo contatto pareva doverlo schiacciare. Ed egli velava questa diffidenza con la unzione, con la timidezza che sono proprie dei deboli quando si trovano al cospetto dei forti, e che spiacevano singolarmente al capitano Antonio, già poco favorevole al topo di libreria.
Il Rodomiti si determinò a romper pel primo il silenzio. E lo fece alla marinaresca, senza preamboli. - Io vengo da Montevideo, signore.
Quest'annunzio fu una rivelazione pel Grolli. Egli alzò gli occhi verso il suo interlocutore, poi li chinò a terra e un vivo rossore si stese su quella parte del suo volto che non era nascosta dalla barba o dai capelli.
- Da Montevideo - egli soggiunse, come facendo eco alle parole del capitano.
E cento memorie della fanciullezza si affacciarono alla sua mente, e un nome scancellato quasi dal suo cuore gli tornò sulle labbra. Pur sul punto di pronunziarlo si arrestò, come se pronunziandolo violasse un voto, fallisse a un dovere. E si contentò di fare una domanda indiretta:
- È partito da un pezzo di là?
- Da due mesi e mezzo.
- E la cosa per la quale mi ha chiamato a Genova ha relazione con questo suo viaggio?
- Senza dubbio - rispose il capitano, stanco di tutto questo armeggìo. - Ho un incarico della signora Elena Natali.
L'incanto era rotto. Il nome che da anni e anni il professor Grolli non sentiva più menzionare d'intorno a sè tornava a ferirgli l'orecchio, e la persona che portava quel nome stava forse per aver di nuovo una parte nella sua vita.
- Elena! - balbettò il professore, più commossoch'egli non volesse parere. - Non le sarà già accaduta sventura?
- Povera signora! Se ella ebbe colpe verso la sua famiglia, le ha certo espiate.
- Sarebbe... morta?
- Quando partii da Montevideo, ella viveva, ma pur troppo era ridotta agli estremi... Basta, ora vedrà una sua lettera.
In quella, il capitano, invitando il dottor Romualdo a seguirlo, infilò un portone spalancato, salì un paio di scale, spinse una porticina ch'era solamente rabbattuta ed entrò insieme al suo compagno in un andito stretto e buio.
- Sei tu, Tonino? - disse una voce femminile. E in pari tempo una donna di mezza età aperse un uscio laterale dando un po' di luce all'andito tenebroso.
- Son io - rispose il capitano - È fatta la mia camera?
- Sì, Tonino... Bada al fuoco... Mi raccomando, con quella pipa.
Il capitano Antonio fece spallucce, e chiese: - La bimba?
- Dorme ancora... Devo svegliarla?... Poni il piede su quella favilla... Abbi riguardo, Tonino.
- Lasciala dormire - replicò il capitano, senza curarsi delle strane paure di sua sorella Teresa circa al fuoco. - Passi, passi.
Queste ultime parole erano rivolte al dottore Romualdo, che venne introdotto in una camera modesta ma pulita, e fatto sedere davanti a un tavolino.
Il Rodomiti offerse al suo ospite un sigaro che questi rifiutò, poi tolse dal cassetto un grosso piego suggellato.
- Ebbi queste carte dalla signora Elena - egli soggiunse. - Si compiaccia di leggerle. Io la lascio solo, ma tornerò di qui a mezz'ora... Intanto son di là con mia sorella. Se le occorre qualche cosa, tiri il campanello.
E uscì inchinandosi alquanto per non urtar col capo sull'architrave.
- Fumerà anche lui - brontolava la signora Teresa nell'andito - sicuro, fumano tutti adesso, fumano perfino le donne.
E il capitano replicava infastidito: - Sempre questa fissazione del fuoco.... Non fuma, non fuma.
Poi si fece silenzio, e il dottore Romualdo aperse con mano tremante il piego misterioso che gli stava davanti. Insieme con altre carte ch'egli si riserbò di esaminare più tardi, c'era una lunga lettera scritta di mano femminile.
"Fratello mio, - diceva quell'epistola - sono quasi dodici anni dacchè, figlia disobbediente e cattiva sorella, io lasciai il tetto domestico, ove avrei dovuto confortare la vecchiezza del babbo ed essere per te una seconda madre. Una passione infelice mi acciecò. Seguii oltre l'Oceano l'uomo che mi aveva ammaliata, e dopo essere rimasta senza risposta a due lettere scritte a nostro padre, non volli ritentare la prova; considerai che tutta la mia famiglia avesse cessato di esistere per me. Ero superba, Romualdo; mi parevadi esser trattata in modo indegno, e il mio cuore s'indurì nel dispetto e nell'ostinazione. Per altro, da un'amica mia io ricevevo di tratto in tratto nuove di casa, e da lei seppi della morte di nostro padre. Piansi, mi strappai i capelli, mi accusai di avere con la mia
condotta abbreviato i giorni di quegli a cui dovevo la vita, e scrissi a te, fratello mio, a te che avevo cullato tante volte su' miei ginocchi, a te cui avevo insegnato a balbettare le prime parole. Ma certo tu mi credevi una triste donna, e la voce della tua sorella non ebbe un'eco nel tuo cuore. Aspettai per mesi e mesi una tua lettera intenerendomi all'idea di riceverla, sperando di poter iniziar teco attraverso l'Oceano uno scambio di assidue corrispondenze. Io dicevo: egli mi racconterà i suoi studi, mi racconterà i suoi primi successi; perchè io ti sapevo pieno d'ingegno, e non dubitavo che saresti riuscito; mi racconterà i suoi primi amori, e quando amerà anche lui, oh allora, ne son certa, mi perdonerà... Ma la tua risposta non venne, e l'orgoglio mi vinse di nuovo, e mi chiusi nel mio silenzio, che durò fino adesso. L'amica che mi teneva informata delle cose della mia famiglia, o è morta anch'essa, o si stancò di scrivermi. È proprio vero, sai, quel proverbio: lontan dagli occhi, lontan dal cuore. Per anni ed anni non seppi nulla di te. A malgrado che vi sia una continua emigrazione dall'Italia a queste contrade, dal nostro paese non è mai capitato nessuno. Finalmente arrivò qui, or son dieci mesi, certo Zirlo, della Spezia, che non ti conosceva di persona, ma che ti aveva sentito nominare perchè un suo nipote aveva studiato in codesta Università. Avevi dunque seguìto la tua vocazione, eri divenuto professore. Lo dicevano sempre in casa, a vederti immerso nei libri, alieno dai divertimenti, dai chiassi. Ma io volevo notizie più precise, e ottenni che il signor Zirlo scrivesse al nipote a questo scopo, raccomandandogli però(vedi come il mio orgoglio fa sempre capolino) di non farti saper nulla dell'incarico ch'egli aveva avuto. Il giovane rispose diffusamente, parlando della stima di cui godi, della certezza che hai di succedere in un termine non troppo lungo al professore titolare, dalle tue abitudini ritiratissime, della gravità del tuo carattere. Benedetto ragazzo! Sempre misantropo, fin da fanciullo! Dal giorno in cui ebbi queste informazioni fui più tranquilla. Non ti scrissi però; mi bastava saperti vivo, sano, onorato. Pensavo bensì che ti avrei scritto se si avverava un mio presentimento.
"Questo mio presentimento sta per avverarsi. Io avrò presto fornito il mio cammino nel mondo,o fratello, e oggi stesso il medico, ch'io supplicai di dirmi la verità, mi confessò che non ho più che otto o dieci giorni da vivere. Grazie al cielo, la mia energia non mi abbandona nemmeno in quest'ultima prova. Bensì mi abbandona il mio orgoglio, e ti mando un tenero addio e ti chiedo perdono di esserti stata una cattiva sorella come fui una cattiva figlia ai nostri genitori, e ti prego di cosa che confido non mi sarà negata da te.
"Ascoltami. Non t'intratterrò sulle vicende di quest'ultimi anni. Ho profuso tesori d'affetto su chi forse non n'era degno, ma che importa quando si ama? Saprai a ogni modo ch'egli mi aveva sposata pochi mesi dopo il nostro arrivo qui, nel momento in cui ci nacque il primo figliuolo. No, egli non era senza cuore; egli non voleva, dopo aver disonorata una donna, abbandonarla; ma le avversità esacerbarono il suo carattere naturalmente sospettoso, iracondo, e resero ben dura, ben difficile la vita al suo fianco. Peggio poi quando vennero a travagliarlo le sofferenze fisiche, e il suo corpo che pareva di granito andò via via dissolvendosi come la cera al fuoco. Rimasi vedova, povera, senz'appoggi, con tre bambini a cui provvedere. Non mi perdetti d'animo, lottai contro tutti gli ostacoli, non isdegnai nessuna onesta fatica, apersi un piccolo albergo ch'ebbe prospere sorti, e riuscii, io donna debole e già cagionevole di salute, a ricondurre un po' d'agiatezza nella mia casa. Ma la sventura aveva preso a perseguitarmi. La febbre gialla mi portò via due de' miei figli; non mi rimase che la mia Gilda, la mia ultima nata. Lo vedi, ha il nome di nostra madre. E intanto il male che mi rodeva da gran tempo le viscere fece progressi rapidi, spaventevoli; invecchiai in pochi mesi più che non avessi invecchiato in dieci anni. Vedendo nello specchio le mie guance smunte, il mio colorito terreo, i miei occhi appannati, io non mi feci illusioni sul mio stato; pur lavorai ugualmente, finchè potei reggermi in piedi. Da un mese non esco dalla mia camera, da due settimane non lascio il letto. Oggi, te lo dissi già, so che vivrò ancora pochi giorni. Oh non è triste morire, ma è triste non poter più rivedere i cari volti delle persone amate, è triste non poter risalutare una volta la patria. E, per una madre, è triste sovra ogni altra cosa il dover lasciare una bimba di non ancora quattr'anni, senza sapere chi veglierà sulla sua infanzia, chi formerà il suo cuore e la sua mente. Qui ci sono molti italiani, e non sarebbe impossibile ditrovar fra essi qualche anima generosa, ma siamo in paesi ove gli uomini vengono e passano; dall'oggi al domani la fortuna può balzarli in qualche fattoria lontana centinaia e centinaia di miglia, sul margine d'una foresta vergine, a poche ore dagli accampamenti di popolazioni selvagge che anelano di vendicarsi di ciò che noi europei facciamo loro soffrire. Poi la sete del guadagno sciupa i migliori caratteri; non si parla d'altro, non si pensa ad altro. Sì, forse nelle tiepide sere, sotto l'imponente padiglione azzurro di questo cielo, stanchi dalle fatiche del giorno, si pensa talvolta al luogo che ci ha visti nascere, all'orizzonte che i nostri occhi hanno contemplato schiudendosi alla luce, alle voci che ci sono prime suonate all'orecchio. E queste memorie tristi e soavi sono
ancora la maggior ricchezza morale che ci rimanga. Ma chi è nato qui di genitori europei è un esule che non può ricordarsi la patria. Poichè qui si è esuli sempre, anche quando ci si nasce... E tale sarebbe la condizione della mia Gilda, se ella restasse in America... O Romualdo, questo pensiero è più acerbo di tutti i miei dolori fisici! Aggiungi poi che il poco denaro ch'io posso lasciare a mia figlia, sufficiente per mantenerla alcuni anni in Europa, sarebbe qui esaurito in brevissimo tempo.
"Presi un partito decisivo, confortatavi anche dal consiglio e dalle offerte di un amico onesto e leale, il capitano Antonio Rodomiti, il quale, dacchè io mi trovo a Montevideo, fu qui più volte col suo legno, e nel suo penultimo viaggio tenne a battesimo la Gilda. Vistami ora in tante angustie e già spacciata dai medici, egli ebbe compassione di me. Ecco ciò che risolsi. Rimandare in Europa la fanciulla, approfittando della partenza per Genova del suo padrino, il quale se ne incarica come d'una sua creatura e non vuole un centesimo di compenso, vendere tutto il poco che ho e formare un peculio che accompagni la mia Gilda e le permetta di non essere a carico di nessuno durante il tempo della sua educazione; finalmente nominar te, fratello mio, tutore di questa orfanella, e raccomandartela, e scongiurarti, quando tu non possa(nè io certo lo pretendo) tenerla in casa tua, di metterla a pensione presso gente fidata, e di invigilare sopra di lei sino al giorno in cui ella sarà in grado di provvedere a sè stessa. No, tu non mi negherai questa grazia. La mia Gilda non deve turbare la quiete dei tuoi studi, ella non deve essere per te un peso o un ostacolo se tu hai già una famiglia, o se stai per averla. Ma io morrò più tranquillapensando che uno di casa mia la sovverrà di consiglio ov'ella ne abbia bisogno, accorrerà al suo letto ov'ella sia malata... e le parlerà qualche volta di nostra madre. Oh sì, di me non importa che tu le parli, Romualdo; io non le lascio esempi da imitare, ma conviene ch'ella onori la memoria di nostra madre, di quell'angiolo che ci abbandonò mentre tu eri fanciullo ed io entravo appena nell'adolescenza, di quell'angelo, che, se fosse vissuto, mi avrebbe forse guarita delle mie pazzie...
"In questa lettera troverai alcuni documenti che potrebbero esserti necessari: il mio atto di matrimonio, l'atto di morte di mio marito, la fede di nascita della Gilda.
"Il capitano Rodomiti ha tutta la somma ch'io ricavai dalla vendita di ciò che possedevo. Egli ne sa la cifra precisa, ed ha l'incarico di